Un Paese con un solido equilibrio costituzionale, con al centro il Parlamento nella formazione delle leggi e nell’elaborazione dei provvedimenti atti alla migliore gestione possibile della Repubblica da parte dell’esecutivo, della magistratura e di tutti gli altri poteri sia nazionali sia locali dello Stato, non dovrebbe temere la proroga dell’emergenza sanitaria tutt’ora vigente.
I dubbi però arrivano prontamente quando un Paese come il nostro, con una buona Costituzione alle spalle e sotto i propri piedi, subisce condizionamenti esteri tanto dall’Unione Europea quanto dai cosiddetti “paesi frugali” (ossia “avari“) del nord del Vecchio Continente in materia di recupero economico, di ridimensionamento del debito pubblico attraverso una serie di misure di salvataggio che dovrebbero essere accompagnate da altrettante riforme strutturali concernenti lavoro e pensioni.
Si ritorna sempre alla casella di partenza. Si passa sempre per quel “via” di un Monopoli dove a perdere sono sempre i lavoratori, i pensionati e le categorie sociali più fragili del tessuto già infiacchito di uno stato-sociale ormai atomizzato e privo di una prospettiva futura.
E’ molto difficile poter prospettare una possibile riconversione moderna di quel che accade in un piano di sostegno che non sia meramente assistenzialista, che promuova l’occupazione e la previdenza attraverso interventi che compenetrino a vicenda i due settori socio-economici e, come avveniva un tempo, facendo in modo che l’uno sostenga l’altro nel ciclo di avvicendamento delle generazioni.
Era la cosiddetta “solidarietà tra le generazioni“: il lavoro dei neoassunti consentiva l’alimentazione di un circuito felice in cui erano in equilibrio diritti sociali fondamentali per fare in modo che fossero proprio i giovani a dare al Paese un futuro e non dovessero invece essere i loro genitori a garantirglielo, permettendo a chi aveva lavorato magari per quarant’anni di godere dei frutti pensionistici accumulati con il versamento dei contributi all’INPS.
Poi tutto è stato drammaticamente capovolto con l’era delle riforme moderne, quelle fatte per “mantenere l’Italia al passo coi tempi“: frasi che hanno sempre fatto un grande effetto, soprattutto se dette per coprire lo spostamento del baricentro politico della tutela degli interessi pubblici a quello unico e imprescindibile della tutela dei privilegi privati.
Il tutto con la benedizione di un centrosinistra che ha prolungato l’onda lunga liberista delle destre, ha innalzato il livello dello scontro di interessi contrapposti senza che tutti coloro che vivevano e vivono del proprio lavoro avvertissero un mutamento così drastico. Le peggiori riforme antisociali fatte dai governi a guida berlusconiana prima, tecnica e renziana poi, sono passate senza grandi scioperi generali, senza conflitti che evidenziassero il carattere altamente esclusivista delle norme che venivano proposte.
Il punto di approdo è oggi la infelicissima condizione dei neolaureati: l’Italia è in Europa l’ultima in quanto a Paese con il minor numero di neolaureati che trovano nell’arco di un triennio un lavoro. A fronte del 92,7% della Germania, noi scendiamo in basso, molto in basso: al 58,7%.
Appena sei giovani su dieci hanno una qualche certezza di poter vedere convertita la loro fatica sui banchi degli atenei per anni e anni, con ingenti spese di studio, in un lavoro che valorizzi le loro conoscenze e gli consenta di partecipare a quel processo di ricambio delle energie tanto sul piano materiale quanto su quello intellettuale nel complesso della comunità in cui viviamo tutti.
Si potrà anche attribuire parte di questa crisi occupazionale al recente stato pandemico da coronavirus, ma sarebbe irresponsabile e miope non legare il tutto ad una analisi che coinvolga le scelte di politica sociale ed economica fatte nel corso dei decenni e che hanno portato ad uno sconvolgimento non soltanto monetario, ad un nuovo pauperismo proprio tra le generazioni più giovani, rendendole precarie in tutto e per tutto, ma insistendo sistematicamente quella linea di riforme che oggi il primo ministro dei Paesi Bassi Mark Rutte vorrebbe che seguissimo ancora, vessando mondo del lavoro e mondo dei pensionati per fare fronte al precipizio in cui siamo caduti ed onorare – soprattutto – i debiti che contrarremo con l’Europa dei prestiti, con quella di veri e propri usurai.
La democrazia italiana è salva finché la centralità del Parlamento sarà garantita e con essa il pieno sovrano diritto di opporsi a nuovi interventi di prelievo fiscale che si riversino, ennesimamente, su tutta quella grande parte della popolazione che non ha una effettiva possibilità di risparmio, che in tempi di pandemia può resistere soltanto tre mesi con le risorse bancarie che ha, con i pochi beni che detiene.
La democrazia italiana è in pericolo non tanto, quindi, per il prorogabile stato di emergenza sanitaria fino al 31 dicembre, ma lo diviene se, ad esempio, il 20 settembre prossimo, qualora dovesse tenersi il referendum sul taglio dei parlamentari (ma sarebbe bene imparare a definire compiutamente questa controriforma incostituzionale come “Taglio del Parlamento“) e il ricorso del 20 luglio prossimo fosse bocciato dal TAR (concernente lo svolgimento contemporaneo di referendum ed elezioni amministrative regionali), le Camere venissero ridimensionate per far posto ad una retorica riferita ai “minori costi della politica“.
L’attacco alla politica, comprensibile in vasti strati popolari (purtroppo preda della facile demagogia delle destre) visto il modo in cui, soprattutto negli ultimi venti/trent’anni di vita istituzionale del Paese, è stata gestita l’amministrazione dello Stato e il rapporto con i cittadini, diviene un attacco alle minoranze tutte: il segno meno non viene soltanto messo davanti al numero di deputati e senatori eleggibili, ma viene posto innanzi alla rappresentanza dei territori, quindi ad un controllo necessario tra eletto ed elettore e viceversa.
Si rischia di rendere ininfluente anche la qualità prima del bicameralismo perfetto che, nonostante venga criticato dai soloni del “semplificazionismo” (leggasi: ricerca di minore controllo possibile da parte del Parlamento sull’attività del governo), è una delle migliori garanzie contro facili aggiramenti della dialettica democratica espressa proprio dall’approfondimento dei temi e, se necessario, dall’introduzione di contraddizioni che affinino meglio le leggi nell’interesse esclusivo della popolazione.
I nemici della democrazia sono la disoccupazione giovanile, i parametri imponibili dalla Troika all’Italia, le esigenze dei “paesi frugali” del Nord Europa, il fiato dei padroni sul collo dello Stato per avere sempre più risorse pubbliche da investire al posto dei loro profitti accumulati fino ad oggi evitando accuratamente le bancarotte con il sostegno pubblico.
Il parassitismo capitalista fa sempre il suo gioco. Può essere aiutato dalla pandemia e anche dai DPCM se divengono alibi per affrontare l’urgenza e “decidere in fretta“, “per dare al Paese una risposta immediata“. Anche queste frasi fanno parte dell’armamentario populistico in cui a volte il governo cade e in cui non può non cadere vista la compagine di maggioranza che lo sostiene e che lo uniforma.
Difendere la democrazia repubblicana oggi significa dire NO al referendum del 20 settembre e, contemporaneamente, avviare una campagna sociale in tutta Italia per chiedere la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, una patrimoniale vera sui redditi da capitale dai 400.000 euro annui a salire progressivamente e una particolare attenzione alla difesa di pensioni, scuola e sanità. Non sono separabili fra loro se si vuole davvero avere una “visione del Paese” che guardi al futuro di generazioni che oggi, quasi al 50%, restano esclusi proprio dal loro avvenire.
MARCO SFERINI
11 luglio 2020
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