Oramai tanti anni fa, circa una trentina, in un documentario televisivo sullo stato dei diritti civili in Iran vennero mostrate le repressioni di piazza di alcuni scioperi operai. Timide manifestazioni di rivendicazioni di elementari tutele che, per lo più, riguardavano la mano d’opera minorile e le condizioni di trattamento nelle industrie che producevano materiali per l’edilizia.
Il coraggioso reportage della RAI osava persino addentrarsi nel mondialmente misconosciuto mondo dei diritti civili nella Repubblica islamica nata dalla rivoluzione khomenista.
Anche allora una certa sinistra ottusangola poteva bollare come attacco reazionario quelle immagini, come tentativo di screditare un regime che, non come oggi tuttavia, si frapponeva tra i due blocchi eredi della Guerra fredda: tra USA e una URSS scivolata nella flebilissima Comunità degli Stati Indipendenti.
Due giovani diciottenni, inquadrati prima un po’ di nascosto e poi messi bene in evidenza dalle immagini della nostra tv di Stato, bendati e ammanettati, venivano fatti salire su una camionetta bianca con delle pesanti grate sui piccoli finestrini laterali. I due ragazzi piangevano e si lamentavano. Tremavano dal terrore. Sapevano che stavano per essere impiccati…
Quale era la loro colpa, il reato che gli veniva addebitato dalla giustizia islamica? Essere stati sorpresi a baciarsi, e nemmeno in pubblico, ma dentro casa. Un abominio per una teocrazia oscurantista.
Non c’era abbastanza carcere nel tempo della loro vita per fargli espiare quella “colpa“. Solo la morte poteva cancellare l’onta fatta ad Allah o, forse, più di tutto la sfida inconsapevole rivolta ad un regime criminogeno, capace di qualunque tipo di repressione e, in questo, non meno pietoso e benevolo della monarchia di Reza Pahlavi.
I due ragazzi si tenevano stretti, gomito a gomito, braccio a braccio, senza potersi stringere in quel momento ultimo, senza potersi tenere per mano, senza potersi guardare un’ultima volta negli occhi. L’amore, il desiderarsi, il cercare un affetto e il volersi bene erano concessi nell’Iran di allora, come del resto avviene odiernamente, ai soli eterosessuali secondo un rigido protocollo maschilista e patriarcale.
Le immagini di quei due ragazzi mi rimarranno negli occhi fino alla fine dei miei giorni: ne sento ancora i singhiozzi e la disperazione per un andare alla morte veramente incomprensibili, del tutto innaturale, completamente affidato alla crudeltà di una antietica religiosa frutto di una isteria collettiva sostenuta a pieni polmoni dagli anatemi degli ayatollah nelle moschee e nei discorsi pubblici.
Cosa è cambiato da allora, in trent’anni, per operai, lavotatori, donne, uomini, ragazzi e chiunque viva in una condizione di minoranza, di non adeguamento a quelli che sono gli standard di una legge coranica interpretata da un codice penale che risale a più di cento anni fa, quando a regnare sull’antica Persia era la dinastia Qajar?
Molto poco, troppo poco. Essere omosessuali è sempre un reato e si rischiano un centinaio di frustate se si è due uomini o due donne che stanno l’uno accanto all’altro nudi “senza motivo“; mentre la pena di morte è prevista dopo il quarto rapporto anale. Impiccagione o fucilazione. Come trent’anni fa, quando i due giovani vennero lasciati lì, pendere da due corde legate a due gru come monito per gli altri.
Ma, forse, in queste settimane qualcosa si muove e sembra non arrestarsi. Sembra, soprattutto, non aver paura di farsi arrestare. Il coraggio delle donne iraniane e di tutta quella popolazione che scende nelle piazze, dopo quel simbolo che è divenuto l’assassinio di Mahsa Amini, è veramente emblematico, soprattutto se lo si inquadra nell’attuale fase mondiale di destabilizzazione globale: dalla pandemia alla guerra, dal riemergere delle destre e del conservatorismo in tanti paesi.
La sensibilizzazione su vasta scala assume delle proporzioni incommensurabili se si pensa alla potenza dei social network, alla diffusione virale dei video delle repressioni di piazza, della risposta di migliaia e migliaia di donne (e anche di uomini) che si tagliano i capelli in segno di protesta, per mandare avanti una lotta che riesca ad abbattare il regime degli ayatollah.
La ridacalizzazione estremistica di un fenomeno religioso è quasi sempre il supporto di un potere che vuole strutturarsi dentro le coscienze di ciascuno e limitare la libertà nel nome della purezza razziale, dell’obbedienza cieca non tanto ai suoi rappresentanti in terra quanto a lui, al dio: la fede diventa uno strumento di controllo delle masse e, se studiamo i millenni di “evoluzione” (ci siano concesse le virgolette in questo caso), possiamo in tutta franchezza assistere ad una endemicità reciprocamente pervasiva tra credenza e obbedienza.
Le teocrazie sono illiberali per antonomasia e sono nemiche della trasformazione in senso sociale dei popoli e delle nazioni. Sono una retrocessione ancestrale di una miscellanea tra quell'”opium des volks” (“oppio dei popoli“) di cui parlava Marx e un moderno tentativo di suggestione massiva di intere comunità che, altrimenti, sarebbe difficile poter gestire e controllare.
La rivolta delle donne iraniane, per questo, va sostenuta come fenomeno liberale (nel senso politico affidato nel corso dei secoli al termine) e come fulcro di sviluppo di una alternativa libertaria al regime della Repubblica islamica. Non si può barattare l’oppressione di un popolo con l’avversione che l’Iran si è guadagnato nei confronti di un occidente imperialista che pretende di dominare su sempre più vaste aree del pianeta.
Se ci piegassimo a questo scambio, se accettassimo un po’ di dittatura e di limitazione delle libertà personali e collettive nel nome della comunanza di una lotta antimperialista, come comuniste e comunisti, come sinistra faremmo il gioco di chi intende manicheisticamente dividere il mondo in due soli colori, in due soli settori che si fronteggiano.
Per fortuna (e sfortuna, a seconda dei casi e dei momenti più o meno storici che viviamo), tante e tali sono le sfaccettature politiche e le intersezioni sociali, civili, morali e politiche, da scongiurare questa antitecitià precocentta e precostituita.
Dobbiamo sostenere con convinzione ogni atto teso al miglioramento di qualunque stile di vita, partendo dalla considerazione che senza diritti sociali non esistono diritti civili, perché la struttura economica tutto avvolge e tutto condiziona, ma, d’altro canto, nemmeno è possibile ammettere che si può vivere decentemente sul piano materiale e ed essere poverissimi su quello che riguarda la sfera intima di ognuno di noi: i propri sentimenti, i desideri insopprimibili che tutti abbiamo e che non possono essere trattati come qualcosa di residuale e di secondario.
La lotta delle donne iraniane, per questo, ha aperto un varco in una impermeabilità del potere degli ayatollah e dei pasdaran: un muro di gomma respingente, fino a poche settimane fa, qualunque recriminazione, qualunque critica, qualunque possibilità di vivere liberamente senza offendere la libertà altrui.
Religione e laicità delle istituzioni possono convivere: dai tempi dell’Illuminismo europeo, della Rivoluzione francese e, per ultimo, con quel principio cavouriano che non è mai veramente stato ben tradotto dal Concordato mussoliniano prima e da quello craxiano poi nell’Italia dove per mille anni lo Stato della Chiesa ha impedito una vera unità del Paese e una evoluzione a tutto tondo di socialità e moralità laica.
Tanti anni fa, durante una intervista rilasciata ad Oriana Fallaci, la Guida Suprema Khomeini affermò che il compito della rivoluzione iraniana e della neonata Repubblica islamica era di «sradicare la corruzione nella società». Si riferiva essenzialmente a quella “morale”, quindi a tutto quello che contravveniva i princìpi della legge religiosa, del Corano.
Ho letto il Corano, aiutandomi con una serie di commenti e note che mi hanno permesso di comprenderne prima di tutto la struttura e una traduzione che, per quanto si avvicini al testo originale, non riesce quasi mai a rendere completamente il significato intrinseco di quelle che sono le rivelazioni fatte a Maometto da Allah. E’ una questione anche di semantica, di concettualità che son proprie di una cultura e che, antropologicamente, le appartengono in tutto e per tutto e, quindi, riesce difficile trasportare lessicalmente nel nostro mondo.
Ma nel Corano, nonostante tutte queste difficoltà, non ho trovato veramente nulla che induca all’eliminazione di una corruzione morale riscontrabile nell’amore, nel desiderio e persino nella passione. Se, anzi, facciamo un paragone presuntuosamente esegetico tra il libro sacro dell’Islam e la Bibbia (o anche la Tōrāh ebraica), il dio di Maometto è nettamente meno vendicativo e iracondo di quello dell’Antico Testamento.
Le rivelazioni di queste religioni dall’unico dio vivente, così come qualunque altra immaginazione dell’esistenza di un essere superiore che governa l’esistenza di tutte e tutti noi, sono presupposti millenari di esercizio del potere attraverso racconti che istillano pregiudizi che divengono prima tradizioni e poi leggi che entrano nel diritto positivo.
Oggi, dopo migliaia di anni di sperimentazione delle credenze religiose e della produzione di dei in grande quantità, possiamo laicamente proporre una alternativa di società in cui credenti e laici vivano insieme senza disprezzarsi a vicenda e senza tentare l’uno di convincere l’altro della bontà dei propri presupposti.
Se tutto si gioca, alla fine, sulla diatriba filosofica sull’esistenza o meno di dio, qualunque certezza sulla rappresentanza terrena della sua volontà è comunque un danno ad una umanità che può credere o non credere, avere fede o rimanere nella terapeutica, benefica alimentazione critica del dubbio, ma che almeno, come fanno le donne in Iran oggi, deve potersi liberare dei teocrati e dare vita ad una nuova repubblica: democratica e sociale, libertaria e per questo plurale.
MARCO SFERINI
8 ottobre 2022
Foto di Shima Abedinzade da Pixabay