C’è un non so che di somiglianza tra il patto tra Roma e Tirana sul respingimento dei migranti dal territorio italiano con quella idea che si fece venire il primo ministro conservatore britannico Suniak, quando ipotizzò di collocare nientepopodimeno che in Ruanda quelli approdati sulle coste della perfida Albione.
E di questi tempi le similitudini e le verosimiglianza si sprecano se si parla di migrazioni, di guerre, di conflitti, di rapporti esteri tra paesi dove la corsa elettorale inizia una nuova puntata e, allo stesso tempo, il dramma sociale continua a salire la china di un disagio esponenziale che nessuna politica liberista è in grado, ma nemmeno pensa di voler frenare e fermare.
Leggendo il testo dell’accordo tra il governo Meloni e quello di Rama, dietro l’apparente incontro tra la necessità di regolamentare i flussi e la congenialità con le esigenze dei rispettivi paesi che affacciano sull’Adriatico, si cela in realtà il tentativo di ridisegnare un sistema di norme e un approccio legislativo-giuridico che stabilisce una serie di garanzie che, se lasciate indietro e sorpassate con altre leggi ad acta, farebbero fare all’Italia (ed all’Europa) un passo indietro in termini di diritti umani e civili.
Negli anni ’90 del secolo scorso, quando frotte di giovani albanesi salivano su navi di fortuna, stipandole all’inverosimile, e i telegiornali rimandavano le immagini dai moli dei porti pugliesi che stracolmavano e sembravano davvero una apocalittica invasione, non si gridò, come invece si fa oggi, ad una seria minaccia per la tenuta sociale, morale, culturale, identitaria ed economica dell’Italia intera.
Il massimo del razzismo d’antan era: «Ci rubano il lavoro». Ma questo lo si sentiva ormai da tempo, quando si parlava di bracciantato agricolo, di immigrati per lo più africani, marocchini, sahariani, che stagionalmente facevano davvero lavori che gli italiani non avrebbero fatto.
Un po’ perché il tenore di vita era migliore rispetto ad oggi; un po’ perché non aveva fatto il suo ingresso nella storia attuale della politica italiana quel populismo qualunquista che avrebbe avuto partita vinta con l’avvicendarsi (ed il sommarsi) del leghismo prorompente, del berlusconismo susseguente, della conformazione del centrodestra e dell’instaurazione dell’alternanza come metodo di dialettica politica rispetto all’alternativa.
Quelle generazioni di albanesi che vennero in Italia per cercare scampo dalle rovine del socialismo irreale e irrealizzato, sono oggi, in larga misura, parte di una italianità nuova, con famiglie mistilingue, con una condivisione di culture che ha dato vita ad una “integrazione” (concetto sgradevole ma purtroppo inflazionato) che è andata ben al di là della predisposizione legislativa a descrivere un quadro di diritti entro cui stare.
La vita insegna ad adeguarsi, a non tradire una abitudinarietà cui, nonostante la caparbietà dei sovranisti di ieri e di oggi e del più intransigente nazionalismo difensore dell’italianità di tutto e di tutti, siamo destinati in quanto esseri umani. La destra meloniana è riuscita a ridicolizzare anche un grande tema cultural-sociale come la preservazione della madrelingua. Non è mettendo delle bislacchissime multe che si tutela un patrimonio come quello dell’idioma millenario della Penisola.
Ma è attraverso proprio processi di apertura alle altre culture che nascono preservazioni che altrimenti finirebbero con l’essere sterili lotte tra etnie, incomprensibili dicotomie che aumentano, infatti, soltanto pregiudizi, razzismo e xenofobia a piene mani.
La maggior parte dei giovanissimi figli di coppie albanesi, nati in Italia dopo quel grande esodo degli anni ’90, oggi parla italiano meglio di noi e ha la possibilità di esprimersi in più lingue. Chi vive in una nazione che ha, di per sé, il portato di una grande eredità culturale, che le proviene da millenni di storia, è inevitabilmente condotto – se le condizioni sociali glielo permettono, si intende… – a confrontarsi con tutto quel bagaglio del passato.
Il presente, invece, dovrebbe essere qualcosa di più del porto delle nebbie che si dimostra con le politiche di non-accoglienza dei migranti. Con l’aprirsi delle grandi questioni epocali di una ridefinizione globale degli assetti mondiali delle grandi potenze in campo, la questione migratoria si è fatta ineludibile sia per le dimensioni che ha assunto un po’ ovunque, e in special modo nel rapporto tra Africa, Medio Oriente, Asia ed Europa, sia per la qualità di cambiamento che impone.
L’accordo stipulato tra Meloni e Rama, peraltro senza passaggi parlamentari che sarebbero stati il minimo sindacale sul piano meramente istituzionale e tutt’altro che formalità appena accennate in qualche intervista, non determina nessun salto di prospettiva, nessuna implementazione dei diritti tanto umani quanto civili (e sociali).
Afferma il principio esclusivista di una destra che si ritiene al di sopra della Storia con la esse maiuscola, quindi capace di invertire le rotte migratorie a colpi di leggi, di costruzione di centri di permanenza (molto poco temporanei) e che, nel solco di provvedimenti anche di centrosinistra di un infelice passato, ha abbandonato nei fatti la baggianta propagandistica del blocco navale per fare accordi con i peggiori regimi africani per trattenere i disperati della Terra in veri e propri lager.
Ormai non si può nemmeno più parlare di “sospensione dei diritti” o del diritto in generale. Si deve, piuttosto, riferirsi a queste politiche bilaterali come veri e propri accordi in spregio alle più elementari norme di un riconoscimento internazionale di una uguaglianza tra gli esseri umani che fonda la sua origine nelle dichiarazioni costituzionali di fine ‘700, dall’America all’Europa.
Stiamo, quindi, attraversando un periodo di vera retrocessione politica. Si tratta di un fenomeno che riguarda direttamente o indirettamente tutti, visto che non si parla di una imposizione fiscale eliminabile il giorno seguente con un decreto o una disposizione simile, ma di cambiamenti interdipendenti tra popoli, tra economie, tra società che si reinventano alle soglie oltrepassate di una modernità tutt’altro che tale.
Ed il governo Meloni, perfettamente coerente con la sua linea di privilegio per una autoctonia che mette l’Italia ai margini dell’Unione Europea e che la fa somigliare sempre di più all’Ungheria di Orbàn, e che regala agli italiani l’illusione di avere un diritto in più di altri per eccellenza di nascita, mentre dispone una manovra economica che non sposta un centesimo dagli armamenti alla sanità pubblica, dal privato al pubblico, dalle grandi opere alla messa in sicurezza del territorio.
L’antisocialità diventa la nuova cifra di riconoscibilità di una destra che ha sposato il neoliberismo anche in materia di sfruttamento delle occasioni più divisive possibili per generare insicurezza, disagio e manifesta ostilità nei confronti di tutte quelle persone a cui, sostanzialmente, non riconosce una parità dei diritti a tutto tondo, per il semplice fatto di non essere nati in Italia da genitori italiani.
Il respingimento dei migranti è l’ultimo, ma non ultimo, tassello di una serie di procedure di trattenimento degli stessi in centri di detenzione che la Corte penale internazionale ha stigmatizzato, facendo riferimento anche alla tragica situazione libica in cui l’Italia è dentro fino al collo (sia per la questione migratoria, sia per gli interessi che “difende” in materia di gas, petrolio, materie prime…
Le convenzioni che garantiscono i diritti fondamentali di ogni essere umano ballano sul vulcano di una riformulazione legislativa che l’Unione Europea guarda con sospetto, perché rischia di far saltare completamente il fragile equilibrio proprio riguardo i flussi migratori e la permanenza nei singoli stati del Vecchio continente.
Se il governo Meloni tenta la cinica carta dei diritti umani tutelati dall’accordo con un presidente albanese ben noto per la sua concezione largamente maggioritaria del potere, e lo fa in vista delle elezioni europee il primo, mentre il secondo spera di ricavarne un primo accredito per l’accesso al consesso dell’Unione, la realtà risulta poi ben diversa, molto più articolata e lontana dalla facile propaganda delle destre.
Non soltanto non verranno rimpatriate le decine dei migliaia di migranti che la Presidente del Consiglio magnifica nelle interviste e sui social. Ma, più ancora, si creeranno le condizioni per un dispiego di mezzi, uomini, forze e quindi soldi pubblici che non ammortizzeranno praticamente mai.
Il risultato sarà, molto probabilmente, la formazione di un bacino di arruolamento di molte persone oggi oneste, ed alla ricerca di una vita altrettanto tale, nei traffici della malavita organizzata dei Balcani e, perché no…, anche di quella italiana. Chi è abituato a fari i conti con queste operazioni di respingimento forzato, sostiene che, con piccolo margine di errore del tutto trascurabile, assisteremo all’espulsione di un migliaio e mezzo di migranti verso i centri che saranno allestiti in Albania.
La destra italiana (ed anche quella europea, così pure quella americana) ci hanno abituato ormai a ragionare in termini di superficialità, di vuoto pneumatico delle loro politiche: tanto muscolari nelle urla, nello sbraitare all’elettorato tutto quello che si propongono per mantenere la sacrale identità patria insieme a quell’invenzione bella e buona delle “radici giudaico cristiane“.
Se l’accordo tra Meloni e Rama avrà un seguito pratico, sarà esattamente quello di moltiplicare i ricorsi contro i respingimenti, di intasare i tribunali, mandare in tilt un intero sistema decisionale ed anche assistenziale. Dalla Libia all’Albania, la politica italiana sul fronte delle migrazioni peggiora sensibilmente e, per sottolineare ancora un profilo davvero cinico e molto poco baro, si viene a creare un dualismo con una Europa in profonda crisi internazionale.
La guerra in Ucraina, entrata in una fase di oggettivissimo stallo, pone agli Stati dell’Unione il problema dell’invio continuo di armi, di una fedeltà pressoché dogmatica nei confronti della NATO, di una situazione mediorientale esplosiva. Se a tutto questo si somma anche la questione migratoria, che si acuirà ancora di più, visto il deserto di macerie che sta diventando la Striscia di Gaza, vi sono tutti i crismi perché entri in crisi la stessa struttura della UE.
Finché sarà utile come polo attrattivo di risorse asiatiche altrimenti non distraibili dall’economia americana, come punto di intermediazione con l’Est e con il crocevia russo-turco-caucasico, l’Europa potrà reggere dal punto di vista strutturale, in funzione di consociazione di economie altrimenti allo sbando. Ma le pressioni internazionali iniziano ad essere davvero tante.
La questione dei diritti umani e di quelli civili non potrà essere trattata a lungo senza una precisa direttiva comunitaria, senza che il Parlamento europeo non riprenda la palla e decida di giocare una partita vera per la difesa di quelli che vengono definiti i valori fondanti del patto originario. Le guerre circondano il Vecchio continente. I nazionalismi pullulano. I governi tentennano, le democrazie scricchiolano.
Pare di essere tornati nei primi decenni del Novecento. Con una crisi economica che devasta interi settori sociali, impoverisce a maltratta così tanto da spingere sempre più a destra il consenso delle masse. Pare di essere di nuovo al punto di partenza di una fine preconizzabile. Di un disastro annunciato e a cui nessuno vuole più veramente credere.
MARCO SFERINI
9 novembre 2023
foto: screenshot You Tube