Rivolta nelle carceri: la miccia nei divieti, il virus cova da tempo

Coronavirus. Sette detenuti morti, evasioni, sequestri, devastazioni: la decisione di sospendere i colloqui innesca l’incendio nelle celle sovraffollate. Il ministro Bonafede lancia un appello alla calma e avverte: «Nessun provvedimento finché c’è violenza»

«Lavarsi le mani, stare a un metro di distanza, ecc. E informarsi, per capire quando è il momento di preoccuparsi»: provate a seguire le regole di prevenzione stando stipati in 562 su 369 posti, come nel penitenziario di Modena che si è acceso per primo domenica pomeriggio, o come a Foggia dove vivono in 608 e i posti sono 365. Provate a farlo, per esempio, quando in cella c’è qualcuno che si lava solo se i volontari gli portano il sapone, perché soldi per comprarlo non ne ha. E provate a tentare di rimanere tranquilli in una situazione del genere, senza informazioni, senza più colloqui visivi con i parenti almeno fino al 22 marzo, con poche telefonate a disposizione, niente più visite dei volontari, e con gli agenti che sono tesi, arrabbiati e impauriti come e peggio di voi.

Naturalmente c’è dell’altro all’origine dell’uso della violenza da parte dei detenuti e c’è molta strumentalizzazione, ma la miccia che ha innescato l’incendio che è divampato nelle carceri italiane sono state le misure anti Coronavirus imposte dal Dpcm del ministero di Giustizia e quelle, troppe, lasciate alla discrezionalità dei direttori degli istituti penitenziari. E il terreno fertile per la rivolta scoppiata in decine di prigioni, da Milano a Palermo, da Foggia e Modena, da Napoli a Roma, da Rieti a Prato, da Ferrara a Bergamo, da Genova a Pavia, coinvolgendo anche i familiari che in più occasioni hanno portato in strada la protesta (e le violenze), è la condizione di sovraffollamento e di degrado in cui versano i 189 penitenziari italiani dove vivono 61.230 persone a fronte di una capienza di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento medio del 120%.

Era prevedibile, dunque. E previsto. Ma forse neppure i tanti che avevano lanciato l’allarme nei giorni scorsi potevano immaginare una situazione tanto drammatica: in una cinquantina di istituti la protesta si è limitata alla battitura delle sbarre, ma in una trentina ci sono stati disordini e violenze, con suppellettili divelte e oggetti dati alle fiamme, detenuti saliti sui tetti, scontri con gli agenti, furti, aggressioni tra reclusi, sequestri di persona ed evasioni. Nei casi peggiori, morti e feriti.

Il primo a infiammarsi domenica pomeriggio, quando è arrivato lo stop alle visite dei parenti e dei volontari motivato dal rischio di contagio al Coronavirus, malgrado il via vai del personale penitenziario continui senza alcuna precauzione, è stato il carcere di Modena dove sono morti in totale sette detenuti, quattro dei quali dopo il trasferimento in altre strutture, a Parma, Ascoli Piceno, Alessandria e Verona. La procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo ma secondo le prime ricostruzioni i carcerati sarebbero morti dopo aver ingerito dosi massicce di metadone e altri psicofarmaci rubati dall’infermeria. La struttura di Modena è stata praticamente distrutta perciò tutti i 500 reclusi sono stati trasferiti altrove. In venti anche a Campobasso dove, secondo l’associazione Antigone, la situazione sarebbe già particolarmente fragile, con un sovraffollamento che così sale a oltre il 190%.

Ieri mattina la protesta si è estesa un po’ ovunque, anche se non sempre violenta ed ha riguardato solo una parte della popolazione reclusa in ciascun carcere. Gente sui tetti per ore in molti istituti, come a Caserta e al San Vittore di Milano dove la rivolta ha avuto il “sostegno esterno” di un gruppo di anarchici. Incendi nelle celle come al Pagliarelli di Palermo, a Bari, a Bologna (cinque i feriti) o nel carcere romano di Regina Coeli (dove il sovraffollamento è del 172%, con 1061 su una capienza di 616 posti). Oggetti lanciati dalle finestre quasi dappertutto, molte devastazioni come a Rieti e Velletri, detenuti barricatisi a Isernia. A Foggia sono evase circa 70 persone, di cui una ventina è riuscita (almeno fino a ieri sera) a far perdere le proprie tracce. Altro tentativo di evasione all’Ucciardone di Palermo. A Rebibbia la protesta è stata amplificata da alcuni parenti che hanno bloccato per qualche ora il traffico sulla via Tiburtina. Nel carcere di Melfi quattro poliziotti e tre sanitari, tra i quali uno psicologo, sono stati sequestrati (lo sono anche mentre andiamo in stampa).

Una lista che si allungava di minuto in minuto, malgrado gli appelli alla calma e i tentativi di sedare i più aggressivi. Volontari, cappellani, agenti e personale penitenziario hanno parlato per ore con i rivoltosi e con il resto dei reclusi riuscendo in molti casi a smussare le tensioni. Un appello alla «responsabilità dei detenuti» è stato lanciato dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi, che ha difeso le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria e ha ammonito: «Se all’interno di un carcere ci fossero contagi, sarebbe una situazione ingestibile, le violenze aumenterebbero». La Lega ha chiesto il pugno duro, e l’uso dell’esercito, così come hanno fatto le destre fortemente radicate in alcuni sindacati di polizia penitenziaria.

Diversa la posizione delle associazioni di volontariato, degli avvocati penalisti e di alcune forze politiche come +Europa e il Partito radicale che chiedono di allentare il sovraffollamento ricorrendo anche all’amnistia per alcuni reati e all’indulto per pene in esecuzione inferiori a due anni (in Iran, va ricordato, per evitare il contagio nelle celle che significherebbe centinaia di morti, l’indulto ha riguardato pene inferiori a cinque anni). «Chiediamo un alleggerimento delle misure coercitive – dice al manifesto la vice del Garante nazionale dei detenuti, Daniela De Robert – Invece di sospendere la semilibertà, ai detenuti che lavorano all’esterno si dovrebbe concedere il permesso di non rientrare in cella in questo periodo». Per De Robert si sarebbe dovuto comunicare di più con i detenuti, rassicurarli, spiegare loro la situazione. E dare meno discrezionalità ai direttori per quanto riguarda le telefonate e i rapporti indiretti tra i reclusi e i propri cari.

Ieri il Presidente dell’ufficio del Garante, Mauro Palma, ha avuto ieri pomeriggio un lungo incontro col ministro di Giustizia Alfonso Bonafede al termine del quale si è costituita una task force di cui entrambi faranno parte insieme al capo del Dap, Francesco Basentini, e del suo vice, Gemma Tuccillo, responsabile della giustizia minorile e di comunità. Tre le direttrici su cui si muoveranno nei prossimi giorni: fermare le violenze, anche perché «sotto ricatto nessun provvedimento potrà essere preso», ha assicurato il Guardasigilli che ieri sera, in un video su Facebook ha lanciato un appello alla calma spiegando ai detenuti e ai loro famigliari che le misure prese sono transitorie e servono a tutela degli stessi reclusi e dei lavoratori in carcere: «Deve essere chiaro – ha sottolineato Bonafede – che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà a nessun risultato». Il secondo obiettivo della task force sarà quello di ripristinare i colloqui «anche prima del 22 marzo», mettendo a punto misure di prevenzione e screening adatti. Infine, il provvedimento più richiesto ma anche più difficile da approntare senza il ricorso ad amnistia e indulto: l’alleggerimento del sovraffollamento. «Ci lavoreremo nei prossimi giorni», assicurano in Via Arenula. Ma sarà sempre troppo tardi.

ELEONORA MARTINI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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