Ritorno a Piazzale Loreto

Molti anni fa, durante una manifestazione di Rifondazione Comunista, mi trovato a Milano e feci un giro della città. Passai anche per piazzale Loreto: un luogo ormai del tutto...
I corpi dei quindici partigiani uccisi dai fascisti della "Muti" il 10 agosto 1944

Molti anni fa, durante una manifestazione di Rifondazione Comunista, mi trovato a Milano e feci un giro della città. Passai anche per piazzale Loreto: un luogo ormai del tutto anonimo in quanto a riferimenti storici. Dove c’era il distributore di benzina su cui vennero issati i cadaveri dei fascisti fucilati ormai passa la strada trafficata di auto e nulla sembrava più come in quel lontano aprile del 1945.
I luoghi si trasformano, prendono le sembianze che gli esseri umani vogliono dare loro: in un certo senso li rispecchiano molto. Ma è anche vero che sovente molti subiscono gli effetti di una urbanizzazione forzata, di una trasformazione legata comunque sempre alla ricerca del profitto fatto, nel nostro caso, immediatamente dopo un conflitto che aveva distrutto moralmente e materialmente il Paese.
Piazzale Loreto è, lo si voglia o meno, un simbolo, una icona separatrice interpretata purtroppo con le lenti deformanti di un pregiudizio antistorico che viene invece spacciato per giusta visione dei fatti.
Vivere da animale notturno, davanti a libri, computer e televisione ha i suoi vantaggi a volte. Ieri sera mi trovavo stancamente a seguire un programma dove si parlava della morte di Mussolini. Un mistero, secondo gli autori inglesi di questa serie di “documentari” (molto tra virgolette): resterebbe incerto chi è stato colui che ha giustiziato Mussolini.
Si badi bene, il giustiziere nella serie britannica viene definito “assassino” e mostra una serie di pregiudizi che mortificano il lavoro degli storici. E’ evidente che uccidere una persona significa commettere omicidio, assassinio: ma tutto ciò quando ci si ritrova in tempi, per così dire, convenzionalmente “normali”.
Chiunque prende un’arma e la rivolge contro un suo simile uccidendolo, non fa un atto di giustizia: commette per l’appunto un assassinio.
San Tommaso, che non era certamente un bolscevico pericoloso, un partigiano comunista, se non altro per l’impossibilità temporale del trovarsi in tali fatti ed eventi, ma che non era nemmeno assimilabile ad un ribelle spartachista, descrive molto bene la necessità di uccidere i tiranni.
Sostiene Tommaso nella “Summa theologica“, al contrario di Gregorio Magno che riteneva invece ogni potere – anche il più perfido – come emanazione della divina volontà, che è legittimo uccidere un despota che si è insediato su un trono o al suo posto di comando absque titulo, quindi illegittimamente, nonostante riconosca che solo l’unica guida di un capo (una “monarchia”) è la forma necessaria per l’organizzazione sociale umana.
Invece, secondo il documentario britannico quello di Mussolini è un omicidio e non un atto di giustizia visto, anche teologicamente, dal punto di vista di un dottore della Chiesa come Tommaso.
Un omicidio che ritorna più volte nel racconto: si parla della brutalità con cui venne “costruito un patibolo” su cui appendere i cadaveri dei gerarchi giustiziati. Invece non fu costruito volontariamente alcun luogo dove dileggiare quei corpi ma solo per sottrarli alla furia della folla che li aveva già ripetutamente presi a calci e fatto oggetto di sputi e ingiurie.
Ma se si segue il filo conduttore della brutalità dei partigiani comunisti, è evidente che non si può raccontare la storia per come veramente si è svolta.
Per i più giovani avvezzi alle ricerche su Google, basta digitare “Piazzale Loreto” per accorgersi che persino il più famoso motore di ricerca di Internet è diventato un pericoloso comunista che vuole scrivere la storia dalla parte dei vincitori piuttosto che da quella dei vinti: per “Strage di piazzale Loreto” si intende infatti l’eccidio operato contro i partigiani lasciati cadaveri il 10 agosto del 1944 nel luogo citato dopo essere stati passati per le armi dai nazifascisti; invece per la morte di Mussolini si fa riferimento al piazzale milanese solo in una apposita voce che richiama alla fine del duce del fascismo. Perché? Semplicemente perché non vi fu nessuna altra strage, se non quella del 1944.
I documentaristi britannici, invece, hanno scandagliato anche le “teorie del complotto” secondo le quali non si saprebbe chi veramente ha sparato a Mussolini: sembra che vi siano ben dodici persone che si contendono questo gesto, compresi i servizi segreti di Sua Maestà che potrebbero aver giocato un ruolo nella vicenda per sottrarre dei carteggi intercorsi tra Churchill e il capo del fascismo che avrebbero potuto essere imbarazzanti sul finire della guerra.
Che il primo ministro inglese prima del conflitto avesse espresso una certa ammirazione per Mussolini è storicamente accertato. Ma da ciò far risalire un complotto per eliminarlo è roba da romanzo giallo. Anche perché in quei frenetici giorni di fine aprile del 1945 tutto si svolgeva nel ridotto territorio della Valtellina dopo la fuga da Milano.
Il punto però è sempre lo stesso in questi frangenti: come si accerta la verità storica e come si stabilisce quale sia l’espressione linguistica che la deve descrivere. Assassinio o atto di giustizia?
La verità storica è la morte. Di ciò siamo certi e, se si fa riferimento all’antifascismo come valore fondante della nostra società, è evidente che le parole di Walter Audisio (il comandante Valerio) del Corpo Volontari della Libertà bastano a descrivere la morte di Mussolini: “Sono incaricato di rendere giustizia al Popolo Italiano“.
Le morti di tutti i tiranni sono avvolte un po’ sempre da teorie complottiste: anche quella di Hitler viene spesso fatta oggetto di fantasiose ricostruzioni che vorrebbero collocare la vita postbellica del fuhrer in Argentina, nascosto presso qualche organizzazione neonazista che lo protesse fino alla morte.
Qualcuno magari pensa che sia fuggito nel Borneo, altri che sia stato rapito dagli alieni. Ma alla fine sempre alle testimonianze di chi era presente in quelle ore a Berlino si deve fare appello e riferimento certo.
Testimonianze che si incrociano senza saperlo e che quindi ricostruiscono la verità storica.
Purtroppo la televisione mostra come “storia” una ricostruzione nemmeno parziale, palesemente distorta dei fatti: interpreta ciò che non è interpretabile se si picca di fare della divulgazione culturale e, quindi, insegnare, far apprendere ciò che non si sa.
Da una conoscenza superficiale dei fatti storici al revisionismo dei medesimi è preferibile certamente la prima.
Meglio guardare dunque Rai Storia (e lasciare al loro destino altri canali) perché fonda nella scientificità irrefutabile degli avvenimenti accaduti tutta la sua produzione storica. Poi ognuno di noi ne darà un giudizio personale a seconda delle convinzioni, ma dai fatti almeno non si scappa.

MARCO SFERINI

29 marzo 2018

foto tratta da Wikipedia

categorie
Marco Sferini

altri articoli