Il dibattito sull’alternativa di società, dunque anche su una sinistra dell’alternativa, si è un po’ arenato in questi mesi: non è detto che sia un male. Abbiamo sacrificato anche troppe parole, moltissime analisi più o meno circostanziate e supportate da esempi del passato recente e remoto, e probabilmente fa bene alla natura della discussione, ogni tanto, fermarla volontariamente o meno che sia. Si rischierebbe una continua emulazione di sé stessi, un parlarsi addosso, un finire col ripetere sempre quanto abbiamo sbagliato nel corso degli anni, come ci siamo allontanati dalle rivendicazioni sociali, dai bisogni veri e concreti delle classi sociali sfruttate e più indigenti, per approdare con la ormai consueta scena finale sui tanti “perché” dell’esclusione dalle istituzioni di ogni ordine e grado.
Nell’anno del centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, dei primi vent’anni dal G8 di Genova, dei trent’anni di vita di Rifondazione Comunista, nonostante la pandemia ancora prenda la scena e la occupi con indisponenza, non si può rimandare nessuna discussione, nessun dibattito sulla ridefinizione dei nostri paramatri culturali, sociali, economici e strettamente politici per interpretare i mutamenti avvenuti dalla fine del 2019 ad oggi. La drastica rottura epocale segnata dal Covid-19 ha alterato non solo i tempi e i modi con cui la nostra vita faceva i conti – diciamo così… – da sempre; ha fatto di più: ha rivoluzionato globalmente le prospettive che il capitalismo mondiale si era dato con il regime liberista per controllare le contraddizioni che via via esplodevano nei diversi ambiti continentali.
La retrocessione economica ha colpito principalmente le industrie delle grandi nuove reti commerciali moderne che veicolano le materie prime trasformate e utilizzabili da più comparti produttivi: minerali, petrolio, oleodotti, gomma, metalli, chimica in generale, industria alimentare, da cui derivano tante elaborazioni successive per arrivare alla definizione di centinaia di migliaia di prodotti che quotidianamente acquistiamo. E’ evidente, oltre a ciò, la flessione che la qualità della vita ha avuto per miliardi di persone salariate, sfruttate e schiavizzate in tanti contesti di un mondo che fa finta di non accorgersi del divario enorme che esiste tra sviluppo tecnologico e avanzamento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Bambine e bambini che estraggono minerali in Africa, altri che cuciono ai telai indiani e pakistani; altri ancora che fanno palloni e scarpe da calcio e quelli cui viene messo in mano un fucile più grande di loro, mandati alle guerre post-coloniali, neo-religiose dove la longa manus dell’intromissione economica negli affari interni di stati pseudo-sovrani arriva non soltanto da ovest ma anche da est, dalla Cina in espansione proprio nel continente nero, dove il bisogno di infrastrutture è un ricchissimo terreno di sviluppo per un moderno, nuovo, sconosciuto (sic!) imperialismo.
In Europa, in Italia le migrazioni premono sui confini e, nonostante non vi sia nessuna “invasione” salvinianamente reclamata e declamata come bandiera del sovranismo autoritario, xenofobo e nazionalista, continuano ad evidenziarci il problema dell’ineguale sviluppo che si espande e che divora i paesi più arretrati sotto molteplici punti di vista e aspetti concretamente riscontrabili dalla realtà dei fatti: in questo senso, Medio Oriente e Africa sono molto differenti fra loro, pur conoscendo miseria, morte, guerre e conflitti interetnici che durano da decine e decine di anni.
Laddove l’Occidente è già arrivato con precedenti conflitti armati su vasta scala, lì ha portato tutto il suo carico neo-colonizzatore e ha disposto la correzione delle abitudini, dei costumi e delle usanze, facendole divenire una variabile dipendente dalla modernizzazione mascherata da diritti esclusivamente civili e guardandosi bene dall’intersecarli con quelle rivendicazioni sociali che invece dovrebbero stare alla base di una vera emancipazione umana dal disumano delle dittature tanto saudite quanto iraniane.
L’Europa sembra oggi lontana dalle minacce autoritarie delle destre razziste e neofasciste, mascherate da istinti democratureggianti, dove la logica del privato non viene nemmeno scalfita dai presunti istinti sociali dei millenials del nostalgismo nero, ma anzi viene riproposta e attualizzata nel nome della sicurezza nazionale, di un primato economico tutto autoctono, semmai in contrapposizione allo strapotere cinese, in mezzo al confronto – scontro tra la Russia neozarista putiniana e gli Stati Uniti tornati al consueto standard liberal-liberista dei tempi pre-trumpiani.
La sinistra di alternativa dovrebbe anzitutto fare i conti con quella che, giustamente, con una punta di orgoglio chiama “l’attualità del comunismo“. E questi conti li dovrebbe fare partendo dalle fondamenta culturali e ideologiche che devono esistere, perché altrimenti non vi sarebbe alcuna visione della società altra da quella in cui viviamo, di una aspirazione rivoluzionaria che non può semplicemente essere minimizzata entro i confini di un neo-riformismo strutturale che si accontenta di stare entro i limiti istituzionali: gli unici obiettivi possibilmente visibili e visibilmente possibili per chi anela risultati enfaticamente definiti “concreti“, scevri da qualunque tentazione “utopica” che, siccome deve essere invisibile e rimanere nel “non luogo“, viene rigiarata abbondantemente nella retorica dell'”irraggiungibile“.
La pandemia è una occasione, se non unica, quanto meno certamente rara per scoprire tutti i nervi delle contraddizioni del capitale che si riversano sui popoli, sulla gente che a stento sbarca il lunario, che vive senza alcuna legittima ambizione di poter avere un futuro dignitoso, di costruirsi una identità nell’interscambio culturale, collettivo, nella formazione personale attraverso una maturità che emerge dalla sinergia con differenze che vanno valorizzate costantemetne.
Possiamo pure temere che la pandemia, oltre ad evidenziare macroscopicamente gli irrisolvibili “difetti” del sistema capitalistico, ci abbia mostrato anche tutta la nostra inadeguatezza come comuniste e comunisti, come sinistre di alternativa e di opposizione in una fase in cui il consenso popolare è condizionato da falsificazioni storico-socio-politiche (le migrazioni-invasioni, i diritti sociali in contrapposizione a quelli civili e marcatamente umani, la scelta tra salvezza umana e resto del pianeta con sempre meno diritti – concessioni date proprio da noi “animali umani“) e attirato nelle trappole del rilancio economico con ricette scritte dalle grandi centrali bancarie e finanziarie del Vecchio Continente.
Possiamo altresì temere che questa inadeguatezza che sentiamo e viviamo ogni giorno, non solo per l’esclusione dalle tabelle dei sondaggi degli istituti di ricerca, degli opinionisti più o meno a buon mercato o per la sparizione dagli schermi tv e dalle pagine dei giornali, sia diventata in qualche modo endemica, strutturale e definisca ormai un nostro modo di essere e di concepirci. Non tanto residuali, settari, come alcuni vorrebbero far credere, ma insufficienti allo scopo, privi di risposte nel mentre ci facciamo tante domande e scriviamo fiumi di parole per capire, capire e ancora capire dove diavolo siamo andati a finire.
Se tutto questo può essere, a maggior ragione abbiamo il dovere politico – quindi morale, sociale, civile e persino ideale – di riunirci, di parlare nuovamente al di là degli schermi internettiani, per comprendere non solo quanto sia cambiata la società che vogliamo rivoluzionare, ma prima ancora quanto siamo cambiati noi. Noi che pretendiamo di rappresentare una sinistra non schematizzabile, non riconducibile alle variabili merceologiche che indirizzano le riforme della politica; una sinistra estranea al perbenismo che decreta ciò che è accettabile e ciò che invece è infantilismo, illusione, temerarietà e sciocchezza per scansare il pericolo che qualcuno pensi diversamente da come deve.
La ricerca deve ripartire da noi. Pensiamo ancora che il comunismo sia attuale e attualizzabile? Pensiamo ancora di poterci dire comuniste e comunisti in questo XXI secolo? Se lo pensiamo, se cioè lo riteniamo concretizzabile ogni giorno con la riorganizzazione di un partito, di sindacati e di centri di diffusione culturale dell’alternativa al pensiero unico (che non ha mai smesso di lavorare e che, anzi, coi decenni si è solidificato e stratificato silenziosamente nelle incoscienze di tantissimi sfruttati), dobbiamo rimetterci a studiare, a vedere guardando invece di guardare con l’intenzione inconscia di vedere soltanto.
Ogni tentativo di ricostruzione della sinistra di alternativa andrà a vuoto se non rimetteremo mano (e mente) alla nostra consapevolezza, a ciò che veramente vogliamo. Se ancora vogliamo l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la fine del profitto, la fine di un dominio antropocentrico sul mondo per un rapporto diverso tra umanità e natura, allora l’attualità del comunismo è un punto di partenza corretto. Ma attenzioni alle fossilizzazioni, ai miti del passato, allo sguardo retrodatato: ciò che ci distrae dagli obiettivi fondamentali, dallo spirito rivoluzionario (l’unico possibile per una pratica concreta dell’alternativa), non è la cultura della memoria e la sua conservazione per avere un bagaglio di attrezzi adatti ad affrontare il futuro. Ciò che ci può distrarre è la mitizzazione di ciò che siamo stati e che ci impedisce così di tornare a diventare ciò che continuiamo ad essere e che saremo.
MARCO SFERINI
29 maggio 2021