Ho l’impressione che, forse complici le feste di fine anno, non abbia avuto la risonanza che merita la sentenza della Corte di Cassazione (n. 25201 del 7.12.2016) che legittima il licenziamento per ragioni di profitto imprenditoriale.
Non sono un esperto della materia, ma mi sembra che sia una sentenza anticostituzionale, o perlomeno in contrasto con l’articolo 41 della Costituzione stessa, in cui si dice che l’attività economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana». Sarò paranoico, ma non posso tacitare il sospetto che questa sentenza sia l’antipasto delle prossime decisioni della Corte Costituzionale sul referendum promosso dal sindacato.
Ora è vero che tutte le norme sono saltate e che la sinistra ufficiale (il Pd tutto, maggioranza, ovviamente, ma anche la minoranza imbelle, compromessa, divisa, contraddittoria) non è più di sinistra da un pezzo e che quella che un tempo si chiamava «sinistra radicale» è un patetico marasma di velleità narcisistiche (un recente articolo di Daniela Preziosi sul manifesto ne mostrava tutta la tragicomica inanità), cui le oscillanti e fantasiose uscite di Pisapia donano un tocco di bizzarria anglosassone.
È anche vero però che dopo il referendum del 4 dicembre ci si sarebbe aspettata una reattività che almeno a me è sfuggita. E peraltro non solo su questa sentenza: ho trovato stupefacente anche l’assoluta mancanza di discussione sul risultato referendario (e non mi riferisco solo al governo fotocopia, ma anche ai bizantinismi – «sopire, troncare, troncare, sopire» diceva il padre provinciale di manzoniana memoria – con cui, nella rassegnata passività generale, si è anestetizzato l’esito della consultazione).
E qui si apre il discorso sul futuro che ci attende.
E vorrei partire dalla conclusione del disincantato articolo di Norma Rangeri del 31 dicembre, che a sua volta sembrava una premessa problematica all’articolo di Asor Rosa che lo seguiva a stretto giro di pagina.
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GIANANDREA PICCIOLI
foto di Marco Sferini