Circa due settimane fa, il 6 luglio, tre ragazzi si sono resi protagonisti di un video in cui uno di loro tiene in palmo di mano un micetto nero. Non per accarezzarlo o fargli le coccole. No. Per scaraventarlo nel vuoto, oltre il limite della strada dove c’è un bosco. La fine del gattino la possiamo orrendamente immaginare: sfracellato da qualche parte su una roccia o su un tronco d’albero o sulla nuda terra dell’Ogliastra.
I tre, tutti minorenni, hanno messo in rete il filmato, vantandosi quindi di questo felinicidio. Va chiamato per quello che è. Non uno scherzo tra ragazzi; non un maltrattamento di animali. Si tratta dell’assassinio di un individuo, di una essere senziente che, per quanto a noi possa apparire piccolo e “inutile”, al pari di un canarino o, magari, di un verme o una formica, è un essere senziente che, quindi, prova emozioni se non uguali, certamente molto simili a noi animali umani.
Chi minimizza è, se non peggio, quasi uguale a chi ha scaraventato la bestiola nel vuoto della morte certa, nell’orrore che avrà provato in quel trambusto. Speriamo che la sua morte sia stata almeno immediata e non sia rimasto con le membra spezzate e rotte in una agonia durata ore o giorni. Eppure, in quella cloaca di commenti crudeli che sono i social network, molte persone ripetono la litania dell’ «…in fondo era solo un gatto…». Di contro, tantissime si indignano e condannano senza appello il felinicidio.
Le violenze contro gli indifesi, i più deboli, i meno possibilitati a difendersi sono una costante nell’esistenza dell’animalità umana: noi siamo anche crudeltà, abiezione, orrore, genocidio, guerra, odio, disprezzo e cinica irrisione per le fragilità altrui. L’empatia che siamo capaci di provare è speculare e inversamente proporzionale alla cattiveria gratuita di cui siamo altrettanto capaci. Solitamente il paragone che per primo mi viene in mente, per signifcare questi opposti, è il contrasto tra grande bellezza e immensa tragedia.
Noi animali umani, che ci astraiamo dall’animalità in cui siamo, a differenze degli altri esseri viventi abbiamo la piena (?) capacità di scegliere se convivere insieme a tutte e tutti in armonia o se, invece, distinguere, separare, privilegiare e, quindi, stabilire delle gerarchie di importanza. Tra noi e e noi stessi, tra noi e il resto del pianeta. Si chiama “antropocentrismo“, si chiama “specismo“. Quei ragazzi dell’Ogliastra sono i figli di una incultura trimillenaria in cui, a partire dai primi scritti religioni (biblici e non solo), si è sempre trattato il rapporto con gli altri animali dall’alto verso il basso.
L’antropocentrismo – del resto lo afferma la parola stessa – mette l’uomo (se volete: l’essere umano) al centro di ogni altro ambiente, di qualunque cosa lo circondi. Lo pone, perché l’ἄνϑρωπος (“antropos“) così si pone, al vertice di una piramide evolutiva che, per avere come risultato lo sviluppo più complesso del cervello animale, la potenza intellettiva che ci rende autocoscienti e, se vogliamo, manifestamente incoscienti, si ritiene superiore e diversamente collaborativa col resto dei viventi e della Natura.
Quei ragazzi, quindi, figli di questa cultura, armati di una buona dose di sadismo, cinismo e cattiveria, indotti anche dal protagonismo spettacolaristico del loro gesto, hanno preso il gattino e lo hanno portato dallo stato naturale di essere vivente a quello di oggetto da poter utilizzare come e quando a loro piacere per un divertimento che è degno dei peggiori giochi gladiatori, dell’epoca in cui, indistintamente, animali umani e non umani venivano scaraventati nelle arene per scannarsi a vicenda.
Ogni anno, in molte città del mondo, si svolgono, del resto, tradizionali esibizioni di destrezza in cui la vita degli animali non umani è messa a repentaglio o la sua fine è la conseguenza inevitabile di un divertimento pari, quanto meno per cinica ostentazione di forza e per altrettanto cinica attitudine all’esserne spettatori ammirati e divertiti. Basti pensare alle corride, ai tori lasciati liberi per le vie di Pamplona, spaventati e resi inviperiti dal trambusto di quella che dovrebbe essere una festa.
Si pensi a tutta una cultura della proprietà da parte nostra degli animali non umani che sono, da millenni sempre, soggiogati e assoggettati al nostro volere tanto per lenire le fatiche dell’essere disumano (e disanimale) quanto per compiacerlo: dal circo alla tavola. Comprendo che è un discorso che tocca le intime corde di una abitudinarietà cui siamo profondamente legati. Per cui, essendo appunto esseri abitudinari, facciamo fatica a scostarci da qualcuna di queste tradizioni se, soprattutto, ci lega intimamente al gruppo, alla comunit.
E cosa c’è di più unificante, oltre alla lingua comune, se non la cultura gastronomica? La convivialità della tavola è, a ben vedere, il luogo in cui nascono affinità come difformità, sapori e dissapori, amori e odii, simpatie e clamorose antipatie. Ma, sia quel che sia, lo stare a tavola ci caratterizza nel più profondo di noi, similmente alla condivisione di un divertimento, di un evento in cui ritrovarsi, come ad esempio allo stadio, e vedere insieme una partita tifando per la stessa squadra. Diversamente dal campo di calcio, la corrida però finisce con la morte del toro, nella stragrande maggioranza dei casi.
Ed è piuttosto infantile chi fa il tifo per il toro, chi si schiera dall’una o dall’altra parte. Ci si dovrebbe schierare con la fine di queste barbarie, così come si dovrebbe avere pietà dei cavalli costretti a sopportarci e a morire con noi nelle guerre antiche. Notizia felice di qualche giorno fa: il Comune di Roma ha finalmente deciso di mettere al bando le “botticelle” trainate dai quadrupedi. I turisti che si facevano accompagnare in carrozzina per fare il giro dell’Urbe, da ora in avanti lo potranno fare su un esemplare modernamente elettrico.
Ed anche qui la ridda di commenti negativi sui social si spreca, mostrando tutta una serie di contraddizioni che lasciano a dir poco interdetti: ci piace tanto la modernità, l’eccezzionalità della tecnologia capace di farci rispariare tempo, forza, fatica, ma pretendiamo poi che i cavalli sopportino lo sforzo del traino di una carrozza con sopra tre, quattro persone sotto il sole d’estate e con il freddo d’inverno. Ci si appella anche qui alla “bellezza” della tradizione. Ma il prezzo di questa beltà lo pagano sempre gli altri rispetto a noi.
Gli altri sono individui come noi, quindi, se iniziamo a provare a sentirci dalla parte dell’animalità, dovremmo percepire una similitudine tra noi e il resto degli esseri senzienti di questo disgraziato e meraviglioso pianeta. Siccome i livelli di sfruttamento degli animali sono molto differenti fra loro, è necessario operare una critica particolareggiata e non buttare tutto in un unico, indistinto calderone di condanna quasi aprioristica.
Bisogna evidenziare, caso per caso, come l’animale umano abbia trascinato con sé fino ad oggi, ed abbia alimentato costantemente, la teorizzazione intriseca alla quotidianità del vivere di uno specismo che non ammette deroghe. Chi lo contesta, come noi vegetariani e vegani, è un tipo un po’ strambo, bislacco, astruso dalla realtà, sognatore, romantico e idilliacamente utopista. Gli animali si sono sempre mangiati e quindi è giusto e normale che sia così. Il che, sillogisticamente parlando, equivarrebbe a dire: visto che la schiavitù c’è sempre stata, è giusto averla come regime di rapporto disumano tra umani anche oggi.
Le distinzioni critiche e i giudizi altrettanto critici sui rapporti tra animali umani e resto dell’animalità non sono un alibi per una ulteriore categorizzazione delle colpe in minori o maggiori e, quindi, un motivo per una accettazione di quelle meno gravi come prassi da poter continuare a portare avanti. Per essere più semplicemente espliciti, quando chi segue un comportamento di vita il più rispettoso possibile nei confronti degli animali nostri simili obietta che si può trovare una alternativa, ad esempio, sulle nostre tavole alla dieta onnivora, solitamente si risponde cercando la contraddizione.
Chi ama cani e gatti, ma mangia il resto degli animali deve provare la coerenza di chi ha fatto la scelta di non considerare più gli animali come cibo, bensì come esseri viventi con pari dignità di vita tanto quanto noi. Qui la distinzione viene operata malevolmente, per alibizzarsi: per poter dire che è tradizione avere animali d’affezione, ma è anche tradizione mangiare gli altri animali. Quindi tutto si risolve nel nome della continuità e non si mette in disussione nulla.
Operiamo le differenze cui si faceva cenno, dal punto di vista antispecista: uccidere animali andando a caccia viene considerato uno “sport” e un “bisogno“. Perché mai dobbiamo ssere ancora così vecchi e primitivi da avere la necessità di divertirci sadicamente uccidendo e di avere bisogno di sparare a fagiani, cinghiali, caprioli, lepri, volpi, eccetera? Davvero esistono queste necessità “sportive” e di sopravvivenza alimentare? I cacciatori risponderanno che la caccia è una attività atavica nell’essere umano e che esiste anche nel mondo animale non umano.
Indubbiamente è così, ma siccome possediamo una intelligenza che ci consente di scegliere, a differenza dell’istintualità delle tigri o dei leoni, sarebbe bene optare per una esistenza che impatti sempre meno nei confronti tanto dell’ambiente quanto di chi lo popolare. E noi umani siamo una piccolissima parte di ciò che realmente esiste in questo mondo. Chi uccide per sport è diverso da quei ragazzini che ammazzano un gattino scaraventandolo nel vuoto? Sì, ma la linea della demarcazione differenziale è davvero sottilissima.
Perché alla base della sportività presunta del cacciatore e del gesto del giovane col micetto in mano c’è comunque un compiacimento nell’ammazzare. E questo è biasimevole senza distinzione alcuna, senza provare a separare le colpe, ma cercando invece la radice comune che produce quei comportamenti. Indubbiamente, chi assiste ad una corrida non uccide nessuno, ma approva per divertimento quella crudeltà. Si diverte nel vedere soffrire un toro infilzato dalle spade del torero in una moderna tauromachia dove scorre sempre copioso il sangue.
Il problema è, sempre e comunque, il tipo di rapporto che intendiamo avere con il resto degli esseri viventi. Se trattiamo la Natura e gli animali non umani alla stregua di una dipendenza completamente affidata a anoi umani, allora degradiamo l’esistenza nel suo complesso. Il capitalismo, che per esistere deve necessariamente trasformare tutto in merce, quindi attribuendo al contempo un valore d’uso e uno di scambio a cose animati e ad esseri viventi, alienandone e alterandone la vera entità ed essenza, ha esasperato le abitudini onnivore umane.
Le grandi catene alimentari che producono dal pollo fritto agli hamburgher, sono le principali responsabili di un inquinamento che strazia il mondo e lo costringe a patire la sete, ad assistere alle sofferenze di miliardi di animali non umani ogni anno. Considerare normale e sopportabile tutto questo non è solamente antietico, ma è insostenibile anche e soprattutto dal punto di vista ambientale ed ecosistemico. La rivoluzione antispecista è rivoluzione comunista nel vero senso della parola: perché mette in comune per tutti gli esseri senzienti quei diritti che noi ricerchiamo – da anticapitalisti – ancora soltanto per l’animalità umana e non per tutti i viventi.
Dovremmo responsabilizzarci anche politicamente su questo piano e considerare il cambiamento sociale come un principio di un mutamento più generale che non sarà mai vera liberazione se non comprenderà la fine dello sfruttamento per ogni essere vivente da parte di ogni altro essere vivente. Anzittutto da parte dell’essere umano verso tutti gli altri coabitanti del pianeta Terra. Partiamo quindi, ancora una volta, da un terribile gesto singolo per ampliare il discorso, per parlarne con chiunque e per insinuare un dubbio: possiamo vivere davvero sopportando che ciò che facciamo non risponda ad un’etica maggiore rispetto a quella stabilita da noi umani?
Siccome sentiamo ancestralmente in noi che non è così, siccome sappiamo che dobbiamo rispondere ad un rispetto verso ogni forma di vita perché noi non siamo i padroni di niente e di nessuno, ma gli ospiti di un pianeta al pari di tutti gli altri che lo abitano, allora la nostra lotta politica e sociale deve evolvere verso una sempre maggiore affinità e corenza tra la necessità della liberazione animale (quindi animale non umana e animale umana) e del rispetto della naturalità di cui facciamo parte.
Per fare questo dobbiamo essere spinti a cambiare le nostre abutidini, le tradizioni, unitamente al mutamento dei rapporti di forza economici che sono alla base dello sfrtutamento antropocentrico, e quindi capitalistico, della Terra. Non bastano i sensi di colpa, non basta prendere atto delle contraddizioni e delle discrasie tra idealità e praticità, tra pensiero ed azione, tra concetto e comportamento non conseguente.
Se davvero vogliamo continuare a rappresentare una alternativa a questa distruzione quotidiana di esistenze e di Natura, noi per primi abbiamo il dovere di cambiare. Come asseriva Ghandi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». E se non vuoi più che gli animali siano un oggetto, una fonte di guadagno per sport, divertimento o consumo alimentare, se vuoi che siano considerati individui proprio come noi, inizia a far partire questo cambiamento da te. È anche da lì che inizia una rivoluzione. Magari invisibile ai più, ma necessaria e non rinviabile.
MARCO SFERINI
13 luglio 2024
foto: screenshot tv ed elaborazione propria