“Bisogna saper scegliere in tempo/non arrivarci per contrarietà”
(F. Guccini, “Eskimo”)
Care compagne, cari compagni,
il dibattito degli ultimi mesi, a sinistra, è completamente dominato e assorbito dal tema delle prossime elezioni politiche. Il fatto in sé dice della necessità, che abbiamo sempre sostenuto, di invertire realmente le nostre priorità strategiche, puntando innanzitutto sul lavoro politico nella società e nei conflitti. Ma sono i contenuti e i termini di tale dibattito ad essere particolarmente sconfortanti. Esso si concentra su due concetti, “unità della sinistra” ed “elezioni”, che sollevano quasi automaticamente le diffidenze di chi guarda al nostro mondo.
All’obiettivo, teoricamente condiviso da molti, della costruzione di una proposta politica radicale in grado di parlare ai milioni di giovani, precarie e precari, disoccupate e disoccupati che hanno votato NO al referendum del 4 dicembre scorso, e che in gran parte si astengono ad ogni turno elettorale, corrisponde una pratica che non potrebbe essere più inadatta allo scopo.
Il dibattito si avvita infatti fra interviste agli esponenti del ceto politico della sinistra, interventi dai blog di multinazionali dell’informazione come Huffington post, o forum che ricordano una stagione lontana e non particolarmente esaltante. Si discute con veemenza di temi lontanissimi dalle esigenze sociali e politiche collettive: la costruzione di un nuovo centrosinistra – ipotesi politica già defunta venti anni fa, grazie, peraltro, agli stessi esponenti che ne discutono oggi – oppure la necessità ritenuta imprescindibile di una lista unica a sinistra, come fosse parola d’ordine che echeggia in ogni mobilitazione e non invece un elemento percepito come volontà di auto-conservazione di gruppi dirigenti visti come sempre più lontani da quelli che vorrebbero rappresentare. Tutta la discussione appare rivolta esclusivamente ad un settore sociale ben preciso, ad un ceto medio ‘riflessivo’, con esperienze politiche passate in grandi partiti e sindacati e in possesso delle categorie politiche minime per comprenderne il linguaggio, intessuto di tortuosi e astratti riferimenti politicistici.
A votare in massa NO alle controriforme costituzionali di Renzi, al contrario, è stato invece un popolo senza prospettive di vita e di lavoro e senza più nemmeno l’idea di poter risolvere i propri problemi attraverso la rappresentanza politica. Men che meno alle elezioni. E’ stato un voto ‘maleducato’ e di rivolta contro la gestione politica della crisi da parte delle forze governative. E chiede radicalità di proposte e di pratiche, non la retorica del buon senso o della responsabilità. Radicalità e credibilità. Nelle parole e nei volti chiamati a rappresentarle.
Anche il percorso avviato con l’assemblea del teatro Brancaccio del 18 giugno scorso, che pure aveva raccolto una partecipazione significativa e generato grandi aspettative, è stato fin dall’inizio prigioniero di una dinamica politicista, dalla simbolica prima fila alla esibita gestione della kermesse da parte di chi voleva mostrare di poter “dare le carte” dietro il paravento della società civile. I battibecchi a mezzo stampa o sui social fra i dirigenti delle forze organizzate che hanno preso parte a quell’assise prevaricano rispetto al confronto sui contenuti che sarebbe tanto necessario. E ciò influisce ovviamente sulla forza del progetto stesso, sul suo radicamento nei territori e sulle scelte politiche che sarebbe chiamato a compiere. Del resto non possiamo non vedere come l’attuale dibattito a sinistra susciti assoluta indifferenza (se non in qualche caso aperta ostilità) tra le mille esperienze che in Italia, fuori dalle forze organizzate, danno vita, pur tra problemi e contraddizioni, a mobilitazioni e conflitti nei territori e nel mondo del lavoro.
Non si tratta solo di non aver dubbi, e non ne abbiamo, sul da che parte stare tra Gotor e i cosiddetti “trotskisti dell’Illinois”, tra chi rivendica in televisione di aver cacciato via i contestatori ed i centri sociali. Ecco, diciamola così: parafrasando D’Alema, non vogliamo una sinistra normale, o normalizzata, preoccupata di ritornare in Parlamento e che subordina il progetto politico alla legge elettorale. Vogliamo lavorare a una convergenza ribelle, alle connessioni che si costruiscono nel conflitto e tra i conflitti, a una proposta politica “matta e visionaria” perchè radicata in una concezione del mondo totalmente antagonista rispetto al presente. Non vogliamo costruire una lista “a sinistra del Pd” , un nuovo Pds che dovrebbe far rivivere la socialdemocrazia che in tutta Europa è morta. Vogliamo costruire un’alternativa.
In tutti questi anni ci hanno chiamati “minoritari” perché abbiamo continuato a sostenere la necessità di una alternativa al Pd in Italia e al Socialismo europeo. Ci chiamavano minoritari anche dirigenti di quelle forze politiche che oggi condividono con noi l’idea di una non riproponibilità del centrosinistra. Benarrivati. Sarebbe un fatto positivo se fossero conseguenti con questo orientamento. Ma dopo aver aspettato che si scegliesse tra Socialisti e sinistra europea, e poi con Tsipras ma non contro Schultz, e che si uscisse dalle secche delle terre di mezzo, sarà possibile prima della legge elettorale capire se con Bersani o con Acerbo? E Rifondazione comunista per quanto tempo dovrà rimanere in subalterna attesa delle altrui scelte, rischiando di poter dare vita a soluzioni di risulta qualora la soluzione degli altri dilemmi non sia quella sperata? Con quale credibilità avanzerà la proposta di una lista alternativa e che tempi avrà per costruirla (cioè per praticare la radicalità enunciata)? Da tempo sosteniamo che è sulla radicalità delle pratiche e di una concezione del mondo che oggi si può costruire consenso (altro che minoritari!), trasformare il senso comune: essere ed essere percepiti come forza antisistema. Ed è anche per questa ragione che non possiamo più aspettare chi sta aspettando Gotor, e magari decidere all’ultimo momento da che parte stare sulla base della legge elettorale.
Per questo motivo, anche se potremmo soffermarci a lungo sulle biografie (che contano, eccome!), ci soffermiamo su un nodo, esemplificativo degli altri per spiegare la differenza tra le proposte politiche in campo: quello europeo. I fuoriusciti dal Pd, legittimamente, vogliono costruire una forza interna al socialismo europeo, così come vi è chi nella sinistra europea pensa a un “campo progressista” con socialisti e verdi. Noi pensiamo sia necessaria una alternativa e una rottura con chi ha costruito l’Europa del Fiscal Compact e oggi vuole inserirlo nei trattati. Con chi ha votato, in nome dell’Europa, il pareggio di bilancio in Costituzione. Con chi ancora oggi, in nome della stabilità, sostiene un Governo come quello di Gentiloni, con le sue leggi securitarie come le Minniti-Orlando. Mentre in tutta Europa implodono i partiti della socialdemocrazia, qualcuno in Italia si appresta a fondarne un altro.
Per recuperare credibilità serve radicalità, per tornare ad avere consenso occorre tornare a praticare conflitto in Italia e in Europa. E noi che non aspettiamo Gotor, cosa stiamo aspettando? Per essere davvero radicali serve fare politica su un altro piano e su un altro “palco”. Perché ogni parola, per quanto giusta, se detta in un contesto sbagliato, perde immediatamente di credibilità e di forza. Non possiamo ancora aspettare che altri sciolgano le loro ambiguità, dobbiamo praticare la radicalità che enunciamo sui palchi perché fra sei mesi non sarà più praticabile in maniera credibile una diversa opzione politica ed elettorale. Formule radicali senza conseguenti azioni politiche semplicemente non sono in campo. Non costituiscono un fatto politico in grado di incidere nel dibattito. Serve un atto di rottura, un gesto di rivolta verso l’insufficienza che avvolge la discussione in atto. Non possiamo né sentirci né apparire come condannati ad accettare ed inseguire una situazione simile. Per noi quello elettorale è passaggio tattico che deve essere funzionale e coerente con l’obiettivo strategico: ricostruire il blocco sociale disgregato dalla passivizzazione e della competizione neoliberista. Dobbiamo aprire subito altre interlocuzioni con i soggetti sociali e politici che come noi intendono le elezioni come uno dei terreni di lotta da mantenere strettamente coerente con l’obiettivo strategico della ricostruzione di un blocco storico alternativo alle politiche seguite fino ad oggi dalle classi dominanti. Deve essere chiaro che noi lavoriamo in primo luogo per questa ricomposizione di classe, non per una lista unica in quanto tale e per la logica disintesi a priori che essa comporta. Una ricomposizione di classe consapevole e necessaria, capace di rispondere alla crescente repressione usata per frantumare e ridurre il conflitto sociale. E tale scelta è assolutamente necessaria per restituire entusiasmo alle tante militanti e ai tanti militanti che discutono nelle nostre sedi e nelle assemblee di questi mesi.
Pensiamo che il tormentone dell’unità della sinistra, unito al ricordo dei tanti fallimenti di esperienze simili in passato, sia uno degli elementi di questa perdita di iniziativa e senso di sé. Colpisce anche che nel dibattito in corso sia mancata quasi completamente una riflessione sulla scarsità e debolezza delle mobilitazioni che hanno accompagnato gli eventi del G7 in Italia, così come sulla esiguità di iniziative politiche e di presenza dall’Italia contro l’appuntamento del NO G20 di Amburgo, che al contrario ha visto una straordinaria partecipazione da tutta Europa e non solo. Sarebbe anche urgente riflettere sul perché a provvedimenti come il Jobs Act non sia seguita una mobilitazione simile a quella prodotta in Francia per l’approvazione della Loi Travail.
I nostri interlocutori e le nostre interlocutrici sono principalmente quelli che oggi si stanno ponendo domande che chiamano in causa il problema drammatico della costituzione politica della soggettività antagonistica oggi, nel tempo dell’egemonia neoliberista e del suo potere pervasivo di passivizzazione e di frammentazione individualistica.
Vogliamo imparare da quelle piazze immense e potenti come quelle del 26 novembre e 8 marzo scorsi, da quelle centinaia di migliaia di donne che, a partire da sé, dai loro corpi forti e vulnerabili, pensano e mettono in atto pratiche anticapitalistiche e antipatriarcali. Quello che serve oggi, niente di meno, senza alibi o incertezze, è l’avvio di un percorso di lotta che abbia come obiettivo limpido la autodeterminazione per tutte e tutti, nella consapevolezza – non ce ne vogliano i civici – che la retorica dei cittadini è stata già smontata dal barbuto di Treviri e da femministe di mezzo mondo. Pensiamo che occorra un programma perché la lotta di classe torni ad essere agita dal basso: nazionalizzazione dei settori strategici, ripubblicizzazione dei beni comuni, reddito minimo, cancellazione delle leggi antioperaie, lancio di una stagione vertenziale in ogni luogo di lavoro e riduzione d’orario a parità di salario, per la riappropriazione del controllo popolare dei pubblici servizi come scuola e sanità, la ricostruzione di un movimento contro la guerra e per l’uscita dalla Nato. O l’opzione elettorale sarà funzionale a tutto ciò, a questa ambizione necessaria, oppure sarà un ostacolo.
Pensiamo sia urgente e necessario uno scatto teorico e politico e che questo scatto possa e debba essere prodotto da Rifondazione comunista, dalla resistente capacità politica e organizzativa di tutte e tutti noi. Iniziamo a praticare la radicalità che enunciamo e che tutte e tutti riteniamo necessaria. Spezziamo la catena per cui i progetti politici diventano variabili dipendenti delle scelte elettorali degli altri. Apriamo spazi di confronto sul che fare anche ma non solo in vista delle prossime elezioni politiche con chi condivide la necessità di una alternativa e di una rottura, di una discontinuità nelle pratiche. Il nostro congresso si chiamava “c’è bisogno di rivoluzione”. Non “c’è bisogno di superare lo sbarramento”.
IMMA BARBAROSSA
CLAUDIA CANDELORO
ELEONORA FORENZA
GABRIELE GESSO
DANIELE MAFFIONE
MASSIMILIANO MURGO
ANTONIO PERILLO
SARA VISINTIN
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