L’esperienza del X Congresso nazionale di Rifondazione Comunista consacra innanzitutto una certezza che mi nascondevo da tempo: un insano provincialismo duro a morire. Un sentimento estrinsecatosi dal mio istintuale tifo per il conterraneo compagno Acerbo ne è il segnale più evidente, ma non è nella sola figura “ontologica” per statuto che rivelo il mio strano sentire, anche la scenografia di questo atto ultimo della storia di Rifondazione è già familiare.
Le strade ed i vicoli spigolosi di Macerata condividono, oltre l’impatto del terremoto, la ripidità del territorio, ma questo è parte di una estetica a cui forse soltanto un lukačiano può dare una impronta ermeneutica, che sia essa negativa, come diceva di quei “neoromantici travestiti da marxisti” dei Francofortesi, o positiva, in virtù di una ricerca dell’estetica incompiuta di Carlo Marx.
Il Congresso ha un compito più che semplice e questo coincide con svolte del Partito sia per questioni elettorali che per quelle teoriche, puramente di linea. Per semplificare all’estremo, i congressi della base hanno incoronato con un 70% di voti la prima mozione, a cui fa capo l’ala movimentista ferreriana.
I compagni in maggioranza vorrebbero riproporre una soluzione unitaria con gli altri poli della Sinistra, ciò che in fondo, nasconde malamente la reiterazione di quello schema elettorale già consumato, ma anche molto sentito.
I compagni della seconda mozione, però, trovano nel sistema d’indirizzo dei ferreriani una forma lacunosa, interrotta, mite nei confronti di una struttura ancora priva di formazione, una voce unitaria con cui esprimere un reale indirizzo.
Resta però fumosa una questione così radicalizzata, morbosa, come il correntismo che pervade Rifondazione e la scinde a priori, troppo inviluppata in una ricerca del netto inquadramento ed al minimale pragmatismo che permetterebbe una razionalizzazione dei quadri, che come molti iscritti sanno, sono monadi in lotta imperterrita l’una con l’altra.
Ora, senza alcuna presa di posizione, vorremmo sollevare una semplice critica. Com’è possibile che sia nell’una che nell’altra posizione vi sia una dialettica unicamente correntista e non una ricerca, una skepsis per dirla in termini tecnici?
Le possibilità sono assai, magari si trova anche la scusante di un ruolo e di una funzione preconfezionata di ogni partito che non possiamo rompere, perché peggioreremmo l’aggravata battaglia isolazionista fra partiti. La nostra realtà è in afasia, senza voce, senza alcuna produzione teorica nemmeno puramente astratta e sganciata dal contesto politico.
Il Partito non può e non deve permettere ancora un soffocamento autoimpostoci per paura di scinderci ancora o per non inimicarci qualcuno.
Dinanzi alla effettiva liquefazione ed indebolimento di ogni proposta, dacché non v’è ricircolo né una vera e propria volontà di uscita da questa condizione di stasi, ci sembra quasi ovvio che sia più facile ricondurre ad una malattia collettiva tale: la depressione.
Il trauma post-berlinese e la cappa socialconfusa del postmodernismo sia filosofico che politico sta soffocando ogni possibile ricostruzione di un pensiero esteriore ed esterno alla schematica prestabilita. Ecco dunque il lascito più “esoterico”, in soliloquio, che il PRC deve risolvere al più presto.
GIANMARCO MEREU
redazionale
3 aprile 2017
foto tratta dalla pagina Facebook nazionale di Rifondazione Comunista