Nonostante l’esigua produzione energetica del nucleare in Italia (91 miliardi di kWh), meno di quella dei pannelli fotovoltaici negli ultimi quattro anni (92 miliardi di kWh), la sua eredità – rappresentata in particolare dalle scorie radioattive – è da oltre trent’anni pesantissima. Uno spettro che, ogni volta che si accendono i riflettori, agita paure e solleva polemiche.
Così è stato anche ieri con la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee per la realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi (Cnapi) da parte di Sogin, la società responsabile dello smantellamento degli impianti, dopo il nulla osta del ministero dello Sviluppo e del ministero dell’Ambiente atteso da cinque anni.
Si tratta di 67 aree potenzialmente idonee sparse in sette regioni: Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sardegna e Sicilia. Una selezione che ha scatenato una rivolta da parte di regioni e sindaci che, da Nord a Sud, la contestano. Dodici località sono in cima alla classifica di idoneità: due si trovano in provincia di Torino (Carmagnola e Caluso), cinque in provincia di Alessandria (indicativamente tra il capoluogo e Novi Ligure) e cinque in provincia di Viterbo.
Il Deposito nazionale con annesso Parco tecnologico – la cui procedura di identificazione è regolamentata dal decreto legislativo 31/2010 ed è redatta in base ai criteri della Guida tecnica 29 di Ispra (no a zone sismiche, alluvionali o densamente popolate) – dovrà essere costruito all’interno di un’area di circa 150 ettari, di cui 110 dedicati al Deposito e 40 al Parco. Avrà, spiega il ministero dell’Ambiente, «una struttura a matrioska», all’interno ci saranno «90 costruzioni in calcestruzzo armato, dette celle», in cui «verranno collocati grandi contenitori in calcestruzzo speciale, i moduli, che racchiuderanno a loro volta i contenitori metallici con all’interno i rifiuti radioattivi già condizionati».
In totale a essere ospitati saranno circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività. Compresi quelli legati ad attività sanitarie e industriali. In un’apposita area del deposito saranno stoccati, invece, 17.000 metri cubi di rifiuti a media e alta attività. Si stima un investimento complessivo di circa 900 milioni.
Attualmente i rifiuti radioattivi si trovano in una ventina di siti provvisori ritenuti inidonei, per esempio a Saluggia (Vercelli), che detiene la maggior parte dei rifiuti italiani compresi i più pericolosi (con Trino Vercellese, l’80% delle scorie italiane). Sono collocati accanto alla Dora Baltea, dove secondo il premio Nobel Carlo Rubbia, con l’alluvione del 2000 si sfiorò la «catastrofe planetaria».
A Saluggia non c’è mai stata una centrale ma solo l’impianto di riprocessamento Eurex, che negli anni catalizzò tantissimo materiale radioattivo. Gli altri rifiuti sono sparsi tra le vecchie centrali di Latina, Trino, Garigliano (Caserta), Caorso (Piacenza) e negli impianti di Rotondella (Matera), Bosco Marengo (Alessandria), Casaccia (Roma), Ispra (Varese). Un problema irrisolto, come ha notato anche l’Unione europea, che aveva aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per i ritardi sui programmi di decommissioning.
Con il via libera alla Carta, partirà la fase di consultazione dei documenti per la durata di due mesi, all’esito della quale si terrà, nell’arco dei quattro mesi successivi un seminario nazionale di confronto tra le parti. Non sarà un percorso facile: il fallimento di Scanzano Jonico nel 2003 non è stato dimenticato. Le istituzioni locali sono sul piede di guerra. Dalla Basilicata arriva un coro di no bipartisan. Matteo Salvini, fingendo di non sapere che le individuazioni erano sul tavolo dal 2015, coglie la palla al balzo e parla di «governo incapace e arrogante».
Dalla Sardegna il presidente Christian Solinas respingendo in modo «irrevocabile» le ipotesi della Cnapi dice: «Non saremo pattumiera delle scorie radioattive». No dai sindaci di Trapani e da quelli della Val d’Orcia in Toscana che lo considerano un «piano irricevibile e non negoziabile». Compatto anche il fronte del «no» della Puglia capitanato da Michele Emiliano, polemici sindaci piemontesi e del Viterbese. Provano a buttare acqua sul fuoco il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, e il sottosegretario con delega alle politiche nucleari, Roberto Morassut: «Non è stata assunta alcuna decisione alle spalle delle comunità locali, come qualcuno in malafede sta in queste ore sostenendo». Ritengono la pubblicazione un «atto di responsabilità», dopo che i governi precedenti avevano eluso una questione impopolare.
Legambiente invita a evitare l’errore del 2003 a Scanzano: «Ora è necessario che si attivi un vero percorso partecipato, che è mancato finora», dice il presidente Stefano Ciafani. Greenpeace contesta la strategia di un solo unico deposito: «Sarebbe stato più logico verificare più scenari e varianti di realizzazione del Programma utilizzando i siti esistenti o parte di essi e applicare a queste opzioni una procedura di Valutazione ambientale strategica, in modo da evidenziare i pro e i contro delle diverse soluzioni». Secondo il Wwf «il tema della sistemazione finale delle scorie nucleari italiane richiede molta cautela e molta trasparenza e coinvolgimento partecipativo delle popolazioni e degli enti locali». Chiede un’adeguata informazione e garanzie di controllo.
MAURO RAVARINO
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