Vidi Marx la prima volta nel febbraio del 1865. L’Internazionale era stata fondata il 28 settembre del 1864 nella riunione di St. Martin’s Hall. Venivo da Parigi per informarlo sui progressi che la giovane associazione faceva lì. Il signor Tolain, oggi senatore della repubblica borghese e uno dei suoi rappresentanti alla Conferenza di Berlino, mi aveva dato una commendatizia.
Avevo allora 24 anni, e mai scorderò l’impressione che mi fece quella prima visita. Marx era allora egro e lavorava al primo volume del «Capitale», che uscì solo due anni dopo (1867). Temendo di non poter concluder l’opera, riceveva i giovani con piacere «perché devo educar uomini che continuino la propaganda comunista dopo di me».
Marx era uno di quei rari uomini che riuscivano corifei nella scienza e nell’attività pubblica al contempo, correlandole sì intimamente che è impossibile capirlo solo come scienziato o lottatore socialista. Benché fosse d’avviso che ogni scienza sia da coltivare per sé stessa e che mai siano da tenere in cale le eventuali conseguenze dell’indagine scientifica, riteneva che lo scienziato (per non degradarsi) mai dovesse cessar di partecipar alla vita pubblica e restar rintanato in uno studio o in un laboratorio come un verme nel suo formaggio, senza mescolarsi alla vita e alle lotte politiche e sociali dei suoi contemporanei.
«La scienza non deve essere un godimento egoistico: coloro che hanno la fortuna di potersi dedicare a studi scientifici devono pure essere i primi a porre le loro cognizioni al servizio dell’umanità». – «Lavorare per il mondo» era uno dei suoi motti prediletti.
Benché avesse potenti recettori delle sofferenze delle classi operaie, non giunse al comunismo per ragioni morali bensì alla fine dello studio della storia e dell’economia politica; infatti diceva che ogni spirito imparziale (senza interessi privati o pregiudizi di classe) dovesse d’uopo giunger alle stesse conclusioni. Ma pur studiando senza opinioni preconcette lo sviluppo economico e politico della società umana, Marx scriveva solo con la fissa intenzione di diffonder i risultati delle sue ricerche e con la fissa e tenace volontà di dar una base scientifica al movimento socialista fino ad allora perso nelle nuvole dell’utopia. Entrò nella vita pubblica solo per lavorar al trionfo della classe operaia la cui missione storica è edificar il comunismo tostoché giunta alla direzione politica e economica della società così come la borghesia tostoché giunta al potere ebbe la missione di romper i ceppi feudali che ostacolavano lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria; di instaurare il libero scambio delle merci e il libero movimento degli uomini; la libertà di contratto fra i datori di lavoro e gli operai; di accentrare i mezzi di produzione e di scambio; preparando così inconsciamente gli elementi intellettuali e materiali della futura società comunista.
Marx non limitò la sua attività al paese in cui era nato. Diceva «io sono un cittadino del mondo e opero così». Infatti in tutti i Paesi ove lo spinsero gli eventi e le persecuzioni politiche (Francia, Belgio, Inghilterra) partecipò eminente ai moti rivoluzionari che ivi si sviluppavano.
Ma apparì come scienziato nello studio a Maitland Park Road ove da tutte le parti del mondo civile venivano i compagni di partito per consultar il maestro del pensiero socialista, non come l’instancabile e impareggiabile agitatore socialista. Questo studio è storico e da conoscere per penetrare nell’intimità della vita spirituale di Marx. Stava al primo piano e l’ampia finestra donde riceveva luce abbondante dava sul parco. Ai due lati del camino e di fronte alla finestra c’erano scansie sature con sopra pacchi di giornali e di manoscritti fino al soffitto. Ante il camino e ad un lato della finestra c’erano due tavoli pieni di carte, libri e giornali; in mezzo alla camera esposti a più luce c’erano un semplice e piccolo tavolo da lavoro (lungo 3 piedi e largo 2) e la sedia di legno; fra la sedia e la scansia ante la finestra, un sofà di cuoio su cui Marx ogni tanto si stendeva a riposar. Sul camino c’erano libri intervallati da sigari, zolfanelli, pacchi di tabacco, fermacarte, fotografie delle figlie, della moglie, di Guglielmo Wolff, di Federico Engels. Era un gran fumatore. Mi disse: «Il “Capitale” non mi renderà l’importo dei sigari che ho fumato scrivendolo». Ma consumava assai di più fiammiferi scordandosi la pipa o il sigaro sì spesso da esaurir posto le scatole di fiammiferi per riaccenderli.
Marx non comandava ad alcuno di metter in ordine, anzi in disordine i suoi libri e le sue carte. Il disordine dominante era solo apparente: tutto era al posto meditato e trovava sempre il libro e il quaderno da consultare senza cercarlo. Pure durante la conversazione se diceva una citazione o una cifra la faceva vedere sul libro. Marx era tutt’uno col suo studio i cui libri e le cui carte erano viscere aggiunte.
Nel disporre i libri gli importava la simmetria: volumi in quarto e in ottavo e opuscoli erano sparsi, disposti per contenuto anziché per formato. Per lui i libri erano attrezzi della mente, non status symbol. «Sono i miei schiavi e devono servirmi secondo la mia volontà», diceva. Li maltrattava senza riguardo al formato, alla rilegatura, alla bellezza della carta o della stampa: piegava gli angoli, tracciava bordi ai margini, sottolineava le righe. Non faceva glosse, ma talvolta non poteva far a meno di mettere un punto esclamativo o interrogativo, se l’autore passava i limiti. Il suo sistema di sottolineatura gli giovava per ritrovar un passo cercato in un libro. Soleva rileggere a distanza di anni i suoi taccuini di note e i passi sottolineati nei libri per rinnovarli nella sua memoria, che era assai grande e precisa. Seguendo fin da giovane il consiglio di Hegel allenava la memoria imparando a recitare versi di una lingua a lui ignota.
Sapeva a memoria Heine e Goethe che spesso citava nelle sue conversazioni. Leggeva spesso poeti che sceglieva fra tutte le letterature europee. Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale greco. Venerava Eschilo e Shakespeare come i due più grandi geni drammatici dell’umanità. Fece profondi studi su Shakespeare che prediligeva, di cui conosceva i personaggi più insignificanti. Tutta la famiglia aderì al culto del grande drammaturgo inglese: le sue figlie lo sapevano a memoria. Allorché dopo il 1848 volle perfezionarsi nella lingua inglese (che sapeva già legger) eccepì tutte le espressioni particolari di Shakespeare. Lo stesso fece con una parte delle opere polemiche di Guglielmo Cobbett che apprezzava moltissimo. Dante e Burns appartenevano ai suoi poeti favoriti. Provava una gran gioia nell’udire le figlie cantar o recitar le satire o le poesie d’amore del poeta scozzese.
Cuvier, lavoratore indefesso e gran maestro della scienza, nel museo di Parigi di cui era direttore fece fare numerosi studi per suo uso personale: ognuno dedicato a una sola occupazione coi necessari libri, strumenti, modelli anatomici, etc. Se si sentiva stanco in un lavoro cambiava studio e si dedicava ad un altro; si narra che tale cambiamento nell’attività intellettuale fosse per lui un riposo. Marx fu un lavoratore indefesso come Cuvier ma senza potersi crear più studi. Riposava girando pel suo unico studio: dalla porta alla finestra si vedeva una striscia di tappeto lisa evidente come un sentiero in un prato. Talora si stendeva sul divano e leggeva un romanzo; talaltra ne leggeva due o tre al contempo, a turni. Come Darwin, Marx era un grande lettore di romanzi, specie settecenteschi, il preferito «Tom Jones» di Fielding. Gli scrittori moderni che gli piacevano di più erano Paul de Kock, Charles Lever, Alessandro Dumas padre e Walter Scott (stimato un capolavoro di «Old Mortality»). Aveva una spiccata predilezione pei racconti umoristici e avventurosi. Come più grandi romanzieri poneva Cervantes e Balzac. Il «Don Chisciotte» era per lui figura della nobiltà morente, le cui virtù di venivano ridicole follie nel mondo della borghesia nascente. La sua ammirazione per Balzac era sì grande da voler scrivere una critica della «Comédie humaine» dopo la Critica dell’economia politica. Balzac era lo storico della società contemporanea nonché il creatore di figure profetiche che erano ancora in embrione sotto Luigi Filippo e dopo la sua morte si svilupparono sotto Napoleone III.
Marx leggeva tutte le lingue europee e ne scriveva tre: il tedesco, il francese e l’inglese, destando l’ammirazione delle madrelingue. Egli ripeteva volentieri il detto: «Una lingua straniera è un’arma nella lotta della vita». Era portato per le lingue, e così le sue figlie. A 50 anni, quando iniziò a studiare il russo, benché fosse una lingua senza affinità etimologica con le lingue antiche e moderne a lui note, dopo sei mesi lo possedeva già al punto da potersi dilettare alla lettura dei poeti e scrittori russi da lui apprezzati: Puskin, Gogol e Šcedrin. Il motivo per cui studiò il russo fu di poter leggere i documenti delle inchieste ufficiali, celati dal governo per le orribili rivelazioni, ma recuperati da amici devoti di Marx, certo unico economista dell’Europa occidentale che ne abbia avuto conoscenza.
Oltre ai poeti e ai romanzieri Marx aveva pure un altro notevole mezzo di riposo intellettuale, la matematica, per cui nutriva speciale predilezione. L’algebra gli dava addirittura conforto morale; ad essa ricorse nei momenti più dolorosi della sua vita movimentata. Durante l’ultima malattia della moglie gli era impossibile occuparsi del suo lavoro scientifico nel solito modo; unica elusione del cordoglio inflittogli dalle sofferenze della sua consorte fu l’immersione nella matematica. Durante questo tempo doloroso scrisse un lavoro sul calcolo infinitesimale che, giusta le comunicazioni dei matematici che lo hanno letto, sarebbe molto importante e sarà pubblicato nelle sue Opere complete. Nella matematica superiore Marx trovava il movimento dialettico nella sua forma più logica eppure più semplice; per lui una scienza era matura solo allorché riusciva a potersi servire della matematica.
La biblioteca di Marx aveva oltre mille volumi da lui cerniti durante una lunga vita di indagini ma non bastava e per anni ei fu un visitatore assiduo del Museo Britannico, il cui catalogo era per lui pregevole. Pure i suoi avversari sono stati costretti a riconoscere la vastità e la profondità del suo sapere nonché nella sua specialità (l’economia politica) pure nella storia, nella filosofia e nella letteratura di tutti i paesi.
Benché andasse sempre a letto molto tardi, si alzava sempre fra le otto e le nove del mattino, beveva un caffè nero, scorreva i giornali e poi andava nel suo studio a lavorar fino alle due o alle tre di notte. S’interrompeva solo pei pasti e la sera, meteo permettendo, per fare una passeggiata a Hampstead Heath. Durante il giorno dormiva un paio d’ore sul divano. In gioventù soleva lavorare notti intere. Il lavoro per Marx era una passione che lo assorbiva sì da dimenticar di mangiar. Serviva chiamarlo più volte per venir a mangiar e tostoché finito l’ultimo boccone tornava nel suo studio. Mangiava poco e soffriva pure d’inappetenza che cercava di combattere mangiando cibi molto salati, prosciutto, pesce affumicato, caviale etc. Il suo stomaco doveva soffrire per la colossale attività cerebrale. Sacrificava tutto il corpo al cervello: pensar era per lui il godimento più alto. L’ho udito spesso ripetere il detto di Hegel, il maestro di filosofia della sua gioventù: «Persino il pensiero delittuoso di un malvagio è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo».
Il suo corpo doveva essere di costituzione vigorosa per resister a uno stile di vita sì insolito e un lavoro spirituale sì estenuante. Infatti fu molto forte, alto sopra della media, le spalle larghe, il petto sviluppato, le membra proporzionate (benché la colonna vertebrale fosse troppo lunga rispetto alle gambe come capita alla razza ebraica). Se in gioventù avesse fatto molta ginnastica sarebbe divenuto un uomo nerboruto. Il solo esercizio fisico che praticava di norma era la marcia: poteva camminare ore o salire colli chiacchierando o fumando senza sentire stanchezza. Si può asserir che nel suo studio lavorasse camminando; sedeva solo per brevi intervalli per scrivere quanto aveva pensato camminando. Amava pure molto chiacchierare camminando, fermandosi se la discussione si faceva vivace o la conversazione importante.
Per anni l’ho accompagnato nelle sue passeggiate serali a Hampstead Heath. Si può dire che ricevetti la mia educazione economica in camporella. Senza accorgersene Marx sviluppava davanti a me il contenuto di tutto il primo volume del «Capitale» in misura di cui potessi tener traccia. Tornato a casa scrivevo ciò che avevo udito meglio che potevo. In principio mi era molto difficile seguire il profondo e complicato corso dei pensieri di Marx. Purtroppo queste preziose note sono perdute: dopo la Comune la polizia saccheggiò e bruciò le mie carte a Parigi ed a Bordeaux. Rimpiango in specie la perdita delle note che presi la sera in cui Marx, con la copiosità di prove e di riflessioni sua propria, mi espose la sua geniale teoria dell’evoluzione della società umana. Fu come se si fosse tolto un velo dai miei occhi; per la prima volta vedevo chiaramente la logica della storia del mondo e potevo ricondurre alle loro cause materiali i fenomeni in apparenza tanto contraddittori dello sviluppo della società e delle idee. Ne fui come abbagliato, e quest’impressione mi restò per anni. Lo stesso effetto si produsse sui socialisti madrileni allorché coi miei poveri mezzi esposi questa che è la più grandiosa delle teorie di Marx e dell’umanità.
Il cervello di Marx era armato della conoscenza di una gran quantità di fatti della storia e delle scienze naturali, e di teorie filosofiche; e sapeva collegar tutte queste conoscenze e osservazioni raccolte con un lungo lavoro intellettuale. Potevasi interrogarlo su qualsiasi argomento e si riceveva la risposta più esauriente che si potesse desiderare nonché condita di riflessioni filosofiche di significato generale. Il suo cervello somigliava a una nave accesa nel porto: pronta a partir su qualsiasi rotta del pensiero. Certo il «Capitale» rivela uno spirito tanto dotto e vigoroso; ma per chi ha conosciuto Marx da vicino, come me, nessuno dei suoi scritti risulta esibire tutta la grandezza del suo genio e della sua scienza. Egli era superiore alle sue opere.
Io ho lavorato con Marx: ero lo scrivano a cui dettava indi ho avuto modo di osservare il suo modo di pensare e di scrivere. Il lavoro era per lui al contempo facile e difficile: facile, perché l’occhio del suo spirito afferrava e correlava alla prima tutti i fatti e le riflessioni concernenti il tema corrente; difficile, perché questa piena comprensione rendeva lunga e difficoltosa l’esposizione completa delle sue idee.
Vico diceva: «la cosa è un corpo solo per Dio che sa tutto; per l’uomo che conosce solo il lato esteriore la cosa è solo una superficie». Marx concepiva le cose à la Dio di Vico. Non vedeva solo la superficie, ma penetrava nell’interno: sia esaminava tutti gli elementi nelle loro reciproche azioni e reazioni; sia isolava ogni elemento e ne ricapitolava la filogenesi. Poi passava dalla cosa al suo ambiente e osservava l’azione di quest’ultimo sulla prima e viceversa; risaliva alla nascita dell’oggetto, ai mutamenti, alle evoluzioni e rivoluzioni che esso aveva compiuto; infine procedeva fino ai suoi effetti più remoti. Giammai ei discerneva una cosa singola per sé e in sé, senza correlazione col suo ambiente, bensì discerneva sempre un mondo complicato in costante movimento; e voleva esprimere l’intera vita di tale mondo nelle sue svariate azioni e reazioni e ininterrotte. Gli scrittori della scuola di Flaubert e dei Goncourt lamentano che è difficile riprodurre ciò che si vede e che da riprodurre sia la superficie di cui parla Vico: l’impressione che le cose suscitano. Il loro lavoro letterario è un gioco paragonato a quello di Marx cui serviva una straordinaria forza di pensiero e un’arte altrettanto straordinaria per riprodurre ciò che vedeva e ciò che era intento a vedere. Non era mai contento del suo lavoro, lo ritoccava sempre ma trovava l’esposizione inferiore alla concezione. Uno studio psicologico di Balzac (miseramente plagiato da Zola), «Le chef d’œuvre inconnu» (Il capolavoro sconosciuto) fece una grande impressione a Marx ché descriveva in parte sentimenti che egli stesso sentiva: un buon pittore è sì tormentato dallo stimolo d’esprimer le cose come si riflettono nel suo pensiero, che corregge e ritocca continuamente il suo quadro finché gli resta solo un informe ammasso di colori, il quale tuttavia ai suoi occhi prevenuti appare come la perfetta riproduzione della realtà.
Marx univa le due qualità del pensatore geniale. Sapeva impareggiabile scomporre un oggetto in tutti i suoi elementi e era maestro nel ricomporre l’oggetto scomposto con tutti i suoi particolari, nello scoprir le sue varie fasi evolutive e le sue correlazioni intime. La sua prova non era astratta, come gli hanno rimproverato gli economisti incapaci di pensare; non usava il metodo dei geometri che dopo aver tratto le loro definizioni dal mondo circostante prescindono affatto dalla realtà nel trarne le conseguenze. Nel «Capitale» non c’è una sola definizione, una sola formula; bensì una serie di profonde analisi, facenti spiccar le sfumature più fugaci e le più impercettibili differenze di grado. Egli inizia constatando il fatto evidente che la ricchezza delle società nelle quali regna il sistema di produzione capitalistico appare come un’enorme accumulazione di merci; così la merce (cosa concreta e non astrazione matematica) è l’elemento, la cellula della ricchezza capitalistica. Ora Marx afferra la merce, la gira e rivolta in tutti i lati, la sviscera e le strappa un segreto dopo l’altro di cui gli economisti ufficiali non hanno avuto alcuna idea eppure sono più numerosi e più profondi dei misteri della religione cattolica. Esaminata la merce da tutti i lati, Marx ne osserva la correlazione alle altre merci nello scambio; poi passa alla sua produzione e alle premesse storiche della sua produzione. Egli esamina le forme in cui la merce appare e indica come passi da una forma all’altra, come una forma generi necessariamente l’altra. La serie logica evolutiva dei fenomeni è esposta con un’arte così perfetta che pare inventata da Marx; invece essa deriva dalla realtà ed è la riproduzione della fattuale dialettica della merce.
Marx lavorava sempre con uno scrupolo estremo, citava fatti o cifre solo da fonte sicura. Non si contentava di comunicazioni di seconda mano, ma rimontava sempre alla fonte per quanto faticoso fosse. Per un fatto di second’ordine accorreva al Museo Britannico per accertarsene sui libri così. I suoi critici non hanno potuto cogliere nei suoi lavori una sua svista o provare che una sua prova poggiasse su fatti vulnerabili ad una disanima. Tale abitudine di risalire alle fonti lo obbligava a leggere scrittori ignoti e citati solo da lui. Il «Capitale» contiene una tale copia di citazioni di autori ignoti da parere dovuto a sfoggiare erudizione. Marx pensava altrimenti: «Io esercito giustizia storica: do a ognuno ciò che gli spetta», diceva. Egli riteneva doveroso citare uno sconosciuto e insignificante scrittore che avesse espresso un’idea per la prima volta o che gli avesse dato esatta formulazione.
La sua coscienza letteraria era severa come quella scientifica. Mai avrebbe citato un fatto di cui non fosse sicuro; manco osava parlare di un argomento senza prima studiarlo a fondo. Pubblicava solo quanto rielaborato più volte fino a trovargli la forma corrispondente, non potendo soffrir il pensiero di apparir al pubblico in modo incompleto. Esibir i suoi manoscritti prima dell’ultima revisione sarebbe stato per lui un martirio. Tale sentimento era in lui sì forte da dirmi un giorno che preferirebbe bruciar i suoi manoscritti che lasciarli incompleti.
Il suo metodo di lavoro comportava problemi di grandezza appena immaginabile dal lettore dei suoi scritti. Per scriver una ventina di pagine del «Capitale» sulla legislazione per la protezione degli operai inglesi, Marx aveva sfogliato un’intera biblioteca di libri azzurri contenenti i resoconti delle Commissioni d’inchiesta e degli ispettori di fabbrica dell’Inghilterra e della Scozia. Li lesse da cima a fondo, come provato dai tanti segni di lapis lasciatici. Egli stimava tali resoconti fra i più importanti e più significativi documenti per lo studio del sistema di produzione capitalistico, e teneva così in cale gli uomini loro incaricati, che disperava di trovare in un’altra nazione uomini «altrettanto competenti, imparziali e franchi come gli ispettori di fabbrica in Inghilterra»: tale l’omaggio vivido reso loro nella prefazione del «Capitale».
Marx attinse moltissimi fatti da questi libri azzurri che i molti membri della Camera bassa nonché della Camera dei Lord (cui sono destinati) usano solo come bersaglio per misurare la forza di penetrazione del proiettile dal numero di pagine perforate. Gli altri li vendevano a peso, il che è un bene perché dette a Marx la possibilità di comprarli a ribasso da un mercante di vecchie carte a Long-Acre da cui egli andava di tanto in tanto a frugare fra i libri e gli scartafacci. Il professor Beasley dichiarò che Marx è stata l’uomo che meglio ha usato le inchieste ufficiali inglesi e che le ha rese note a tutto il mondo. Il professar Beasley però non sapeva che prima del 1845 Engels aveva tratto dai libri azzurri numerose note usate per redarre il suo libro: La situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra.
II
Per conoscer e imparar ad amar il cuore che batteva sotto l’involucro dello scienziato serviva vedere Marx allorché aveva chiusi i suoi libri e quaderni, insieme alla famiglia o la domenica sera nel circolo dei suoi amici. Allora si rivelava il più grato compagno: pieno d’umorismo e di arguzia, sapeva ridere di cuore. Se udiva una parola arguta o una risposta pronta i suoi occhi neri con folte sopracciglia scintillavano di gioia e di beffarda ironia.
Era un padre tenero, mite e attento. «I bambini devono educare i genitori», egli soleva dire. Nei rapporti con le figlie che lo amavano immensamente manco un’ombra di autorità paterna si è fatta valere. Mai le comandava; per ottenere ciò che desiderava le pregava come di un favore; per proibirgli qualcosa gli accennava di non farlo. Eppure raramente un padre fu più ascoltato di lui. Le sue figlie lo consideravano un amico e lo trattavano come un compagno. Non lo chiamavano «padre», ma «Moro», un soprannome ricevuto per la carnagione bruna e capelli e barba neri. Invece i membri della Lega dei Comunisti già dal 1848 lo chiamavano «papà Marx», benché allora manco avesse trent’anni.
Marx scherzava colle figlie per delle ore. Esse ricordano ancora le battaglie navali e l’incendio d’intere flotte di carta che fabbricava per loro e con loro grande gioia dava alle fiamme in un gran secchio d’acqua. La domenica le figlie non lo lasciavano lavorar; per tutta la giornata egli apparteneva loro. Quando il meteo era bello tutta la famiglia faceva una lunga passeggiata in campagna sostando in modeste osterie a bere della birra di zenzero e a mangiare pane e formaggio. Quando le figlie erano ancora piccole Marx accorciava loro il lungo cammino narrando storielle di fate che inventava sul momento di cui arricchiva l’intreccio secondo la lunghezza del cammino, onde le bambine dimenticassero la stanchezza ascoltando. Marx aveva una fantasia poetica ricca senza pari; le sue prime opere letterarie furono delle poesie. La signora Marx conservava con cura i versi giovanili del marito e non li mostrava a nessuno. La famiglia Marx aveva sognata per il figlio la carriera di letterato o professore; giusta essa si era degradato dandosi all’agitazione socialista e occupandosi di economia politica (scienza allora poco apprezzata in Germania). Marx aveva promesso alle sue figlie di scrivergli un dramma il cui soggetto dovevano essere i Gracchi. Peccato non poté mantener la parola: sarebbe stato notevole veder come il cosiddetto «il cavaliere della lotta di classe» avrebbe trattato questo terribile e grandioso episodio della lotta di classe del mondo antico. Marx fece molti piani irrealizzati, fra cui la stesura di una logica ed una storia della filosofia; che fu in gioventù il suo studio favorito. Per compiere i suoi piani letterari e donare al mondo una parte dei tesori celati nel suo cervello avrebbe dovuto vivere 100 anni.
Per tutta la vita sua moglie gli fu una compagna nel senso più vero e completo della parola. Si conobbero da bambini e crebbero assieme. Marx aveva circa 17 anni quando si fidanzò. I giovani attesero nove anni prima di sposarsi nel 1843, e d’allora non si separarono più. La signora Marx morì poco prima del marito. Nessuno ha posseduto in misura più alta della signora Marx il sentimento dell’uguaglianza, benché fosse nata e cresciuta in una famiglia nobile tedesca. Per lei non esistevano differenze e classificazioni sociali. Nella sua casa, alla sua tavola, lei riceveva operai in tuta da lavoro con la stessa cortesia e gentilezza come se fossero stati duchi e prìncipi. Molti operai di tutti i paesi hanno conosciuto la sua cordiale ospitalità e sono convinto che nessuno di loro abbia pensato che la donna che li riceveva con una cordialità così diretta e sincera discendesse in linea femminile dalla famiglia dei duchi D’Argyll e che suo fratello fosse stato ministro del re di Prussia. La signora Marx non badava a ciò; ella aveva abbandonato tutto per seguire il suo Karl e manco nei tempi di maggior miseria ella se ne dolse.
Ella aveva uno spirito ilare e brillante. Le lettere inviate agli amici, che scriveva senza fatica e senza pena, sono invero produzioni di una mente vivace e originale. Ricevere una lettera dalla signora Marx era una festa. Giovanni Filippo Becker ne ha pubblicate parecchie. Heine, il satirico inesorabile, temeva le beffe di Marx, ma nutriva una grande ammirazione per lo spirito acuto e delicato di sua moglie; era un ospite fisso dei coniugi Marx durante il loro soggiorno parigino. Marx stimava sì tanto l’intelligenza e lo spirito critico di sua moglie che nel 1866 mi disse d’averle fatto legger tutti i suoi manoscritti tenendo in gran cale il suo giudizio. Ella copiava i manoscritti del marito per la stampa.
La signora Marx ebbe molti figli. Tre morirono in tenera età, nel periodo di povertà che la famiglia dovette subire dopo la rivoluzione del 1848, in fuga a Londra dove visse in due camerette in Dean Street a Soho Square. Io conobbi solo le tre figlie. Quando nel 1865 mi presentai a Marx, la più giovane, l’attuale signora Aveling, era una magnifica bambina dal carattere d’un ragazzo. Marx diceva che sua moglie aveva sbagliato sesso dandola alla luce femmina. Le altre due figlie formavano il più bello e armonico contrasto osservabile. La maggiore, la signora Longuet, era come il padre: colorito bruno; occhi neri e capelli corvini. La più giovane, attuale signora Lafargue, era bionda e rosea; la sua enorme chioma e ricciuta brillava aurea come se il sole al tramonto si caricasse su di essa; ella assomigliava alla madre.
Oltre ai nominati, la famiglia Marx contava ancora un membro notevole: la signorina Elena Demuth. Nata in una famiglia di contadini, ella era entrata al servizio della signora Marx giovanissima (quasi bambina) molto tempo prima che questa si sposasse. Sposatasi Jenny, Elena non volle lasciarla e si dedicò alla famiglia Marx con abnegazione, affatto dimentica di sé stessa. Ea accompagnò la signora Marx e suo marito in tutti i viaggi per l’Europa e condivise le espulsioni. Essa era lo spirito pratico della casa e sapeva uscire dalle situazioni più difficili. Grazie al suo ordine, alla sua parsimonia, alla sua abilità la famiglia non fu mai privata almeno dell’indispensabile. Ella sapeva far tutto: cucina, pulizia, cucito; tagliava i vestitini che poi cuciva con la signora Marx. Era al contempo domina e domestica della casa che dirigeva. Le figlie l’amavano come una madre ed essa aveva su di loro un’autorità materna. La signora Marx stimava Elena un’amica intima e Marx aveva per lei un’amicizia speciale; giocava con lei a scacchi, spesso perdendo. L’amore di Elena per la famiglia Marx era cieco: tutto ciò che i Marx facevano era buono nonché ben fatto. Chi criticava Marx aveva da fare con lei. Chiunque divenisse amico di famiglia veniva preso sotto la sua egida materna. Elena aveva per così dir adottato tutta la famiglia Marx ai cui coniugi sopravvisse. Ora offre le sue cure alla casa di Engels che conobbe da giovane e al quale aveva esteso l’affetto che nutriva per la famiglia Marx.
Del resto Engels era un membro spurio della famiglia Marx. Le figlie di Marx lo chiamavano secondo padre; ei era l’alter ego di Marx. Per lungo tempo in Germania i loro nomi furono inseparabili e resteranno uniti per sempre sulle pagine della storia. Marx ed Engels hanno realizzato ai giorni nostri l’ideale dell’amicizia cantato dai poeti antichi. Fin dalla gioventù sono maturati insieme parallelamente, vivendo nella più stretta comunità d’idee e di sentimenti, partecipando agli stessi moti rivoluzionari, lavorando insieme allorché potevano restare uniti. Probabilmente avrebbero lavorato insieme per tutta la vita se gli eventi non li avessero costretti a viver separati per un ventennio. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 Engels dovette recarsi a Manchester, mentre Marx fu costretto a restar a Londra. Eppure seguitarono a viver in comune la loro vita spirituale, inviandosi quasi ogni giorno lettere con le opinioni sulle novità politiche e scientifiche e sul loro lavoro intellettuale. Quando Engels smise di lavorare, traslocò da Manchester a Londra a soli 10 minuti di distanza dal suo caro Marx. Dal 1870 fino alla morte di Marx i due non passarono un giorno senza vedersi.
Quando Engels annunciava una sua visita da Manchester per la famiglia Marx era una festa. Si parlava a lungo della sua prossima visita e il giorno dell’arrivo Marx non poteva lavorar dall’impazienza. I due amici vegliavano tutta la notte seduti a fumare e bere e a discuter degli eventi successi dall’ultima visita.
Marx apprezzava l’opinione di Engels più d’ogni altra, ritenendo Engels l’unico collaboratore alla sua altezza. Engels valeva per lui quanto una platea. Per convincerlo, per guadagnarlo alle sue idee, Marx faceva ogni sforzo volentieri. Es. L’ho visto rilegger da capo a fondo interi volumi in cerca di fatti che potessero mutare l’opinione di Engels su qualche punto accessorio (che ora non ricordo) sulla guerra politica e religiosa degli Albigesi. Conquistare l’opinione di Engels era per lui un trionfo.
Marx era fiero di Engels. Mi enumerava con soddisfazione tutti i pregi morali e intellettuali dell’amico e venne con me a Manchester espressamente per presentarmelo. Ammirava la straordinaria vastità delle sue cognizioni scientifiche, si allarmava per le più piccole cose che lo potessero colpire. Mi disse «Io tremo sempre all’idea che gli capiti un incidente in una delle cacce per lui irresistibili galoppando a briglia sciolta per i campi e saltando tutti gli ostacoli».
In sua moglie, nelle sue figlie, in Elena e in Engels Marx trovò chi si confece al suo amore di un ottimo amico, marito e padre.
III
Marx all’inizio fu un capo della borghesia radicale ma veniva abbandonato quando faceva un’opposizione troppo risoluta e fu trattato da nemico appena diventò socialista. Perseguitato ed espulso dalla Germania, dopo le ingiurie e le calunni ci fu una congiura del silenzio contro la sua persona e le sue opere. Il «18 Brumaio» (provante che di tutti gli storici e politici del 1848 solo Marx avesse capito il vero carattere, le cause e le conseguenze del colpo di Stato del 2 dicembre 1851) fu affatto negletto: non un giornale borghese accennò all’opera malgrado la sua attualità. Lo stesso toccò pure a «Miseria della filosofia» (una risposta a «Filosofia della miseria») e a «Per la critica dell’economia politica». Solo l’Internazionale e il «Capitale. Libro primo» ruppero 15 anni di congiura del silenzio. Ignorare Marx era ora impossibile: l’Internazionale cresceva e riempiva il mondo della fama delle sue gesta. Benché Marx restasse in disparte lasciando agire altri, si scoprì tosto che era il regista. In Germania fu fondato il partito socialdemocratico, che diventò sì forte che Bismarck prima di attaccarlo cercò di conquistarlo. Il lassalliano Schweitzer pubblicò vari articoli per far conoscere il «Capitale» al pubblico operaio; Marx li trovò notevoli. Il Congresso dell’Internazionale, su proposta di Giovanni Filippo Becker, decise di raccomandare ai socialisti internazionalisti l’opera di Marx come la Bibbia della classe operaia.
Dopo l’insurrezione del 18 marzo 1871 (attribuita dai prevenuti all’Internazionale) e la disfatta della Comune (di cui il Consiglio generale dell’Internazionale prese le difese contro la scatenata stampa borghese di tutti i Paesi) il nome di Marx diventò celebre in tutto il mondo. Marx fu riconosciuto come indiscusso teorico del socialismo scientifico e come organizzatore del primo movimento internazionale della classe operaia. Il «Capitale» diventò l’abbiccì dei socialisti di tutti i paesi; tutti i giornali socialisti e operai ne resero popolari le teorie scientifiche e in America durante un grande sciopero indetto a New York si pubblicarono passi dell’opera su volantini per infervorare gli operai a resister e provar loro la legittimità delle loro rivendicazioni. Il «Capitale» fu tradotto nelle principali lingue d’Europa (russo, francese, inglese) e ne apparvero estratti in tedesco, italiano, francese, spagnolo e olandese. E ogni volta che in Europa o in America gli avversari tentarono di confutar le sue teorie, gli economisti trovarono subito una risposta socialista che gli turava la bocca. Oggi il «Capitale» è divenuto davvero la Bibbia della classe operaia come lo denominò il Congresso dell’Internazionale.
Ma la parte attiva di Marx al movimento internazionale socialista tolse tempo al suo lavoro scientifico; per non parlare della morte della moglie e della figlia maggiore, la signora Longuet.
Alla moglie Marx era intimamente legato da un profondo affetto. La sua bellezza fu la sua gioia e il suo orgoglio; la dolcezza e la devozione del suo carattere gli avevano reso più sopportabile la miseria inevitabilmente legata alla sua vita movimentata di socialista rivoluzionario. L’agonia letale della signora Marx ridusse certo i giorni di vita del suo sposo. Durante la lunga e penosa malattia della moglie, Marx (affranto nello spirito dall’agitazione; esaurito nel corpo dall’insonnia e dalla mancanza di moto e d’aria pura) si ammalò d’una polmonite che lo mise in pericolo di vita.
La signora Marx mori il 2 dicembre 1881 com’era vissuta: comunista e materialista. La morte non le fece paura. Quando sentì giungere la fine disse: «Karl, le mie forze sono finite!»; queste furono le sue ultime parole chiaramente comprensibili. Fu sepolta il 5 dicembre nel cimitero di Highgate nel reparto dannati (unconsecrated ground – terreno non benedetto). Giusta la condotta di vita sua e di Marx si evitarono accuratamente pubblici funerali: solo pochi intimi accompagnarono l’estinta all’ultima dimora. Prima di separarci, il vecchio amico di Marx, Federico Engels, disse sulla fossa le seguenti parole:
«Amici! La magnanima donna che abbiamo seppellito era nata nel 1814 a Salzwedel. Suo padre, il barone di Westfalia, fu subito dopo trasferito a Treviri come consigliere di Stato, e li entrò in intima amicizia colla famiglia Marx. I bambini crebbero assieme e le due nature dotate si trovarono. Quando Marx entrò nell’Università la comunità della loro sorte era già decisa.
Nel 1843, dopo la soppressione della prima “Gazzetta renana” redatta per lungo tempo da Marx, ci furono le nozze. Da allora nonché condividere la sorte, il lavoro e la lotta del marito, Jenny Marx vi partecipò con elevato intelletto e fervente passione.
La giovane coppia andò a Parigi in un esilio volontario, che presto diventò coatto. Il governo prussiano perseguitò Marx pure laggiù. Devo aggiunger con rammarico che un uomo come Alessandro Humboldt si prestò per ottenere il decreto di espulsione di Marx. La famiglia dovette recarsi a Bruxelles. Col Quarantotto scoppiarono disordini pure a Bruxelles e nonché arrestare Marx, il governo belga non ebbe ritegno di gettar in carcere pure la moglie senza motivo.
Lo slancio rivoluzionario del 1848 durò meno di un anno. Nuovo esilio, prima a Parigi, poi a Londra per via d’una nuova ingerenza del governo francese. E stavolta per Jenny Marx fu un vero esilio con tutti i suoi orrori. Tollerò le angustie materiali per cui vide scendere nella tomba due bambini e una figlioletta ma le dolse profondamente che il governo e l’opposizione borghese (dai volgari liberali ai democratici) si unirono in una gran congiura contro suo marito che riempirono di calunnie misere e infami; che tutta la stampa fece coro e gli impedì ogni difesa onde in quel momento Marx fu inerme davanti ad avversari spregevoli per lui e la moglie. E ciò durò a lungo ma non per sempre.
Il proletariato europeo recuperò condizioni di vita atte a muoversi in modo indipendente, in una certa misura. Fu fondata l’Internazionale. La lotta di classe del proletariato penetrò di Paese in Paese, e suo marito lottava fra i primi e al primo posto. Allora iniziò per lei un tempo che controbilanciò molte dure sofferenze. Lei vide dissolversi come pula al vento le calunnie piovute su Marx dense come grandine; vide il suo insegnamento (che tutti i partiti reazionari, sia feudali sia democratici, si erano applicati per sopprimere) diffondersi in tutti i Paesi e in tutte le lingue civili. Lei vide il movimento proletario, col quale tutto il suo essere era cresciuto, scuoter dalle fondamenta il vecchio mondo, dalla Russia all’America e, sfidando ogni resistenza, marciare innanzi sempre più certo della vittoria. E una delle sue ultime gioie fu la schiacciante prova di vigore incrollabile data dai nostri operai tedeschi nelle ultime elezioni al Reichstag.
Ciò che per quasi 40 anni tale donna ha dato al movimento, con spirito critico sì acuto, col suo tatto politico, con l’energia e la passione del suo carattere, con la sua devozione pei compagni di lotta, non ha avuto pubblicità e non è registrato negli annali della stampa contemporanea; si deve averlo visto di persona. Ma io so che se le donne dei profughi della Comune la ricorderanno spesso allora tanto più spesso noi sentiremo la mancanza del suo consiglio ardito e saggio (ardito senza millanteria, saggio senza scortesia).
Non serve che dica delle sue qualità personali, indimenticabili per i presenti. Se mai c’è stata una donna la cui maggiore felicità consisté nel rendere felici gli altri, è stata questa donna».
Morta la moglie la vita di Marx fu ancora una serie di dolori fisici e morali sostenuti stoicamente fino all’improvvisa morte della primogenita l’anno dopo, la signora Longuet, da cui non si rimise più. Spirò seduto al suo tavolo da lavoro il 14 marzo 1883 nel sessantaseiesimo anno della sua vita.
PAUL LAFARGUE
dalla “Die Neue Zeit”, Anno IX, 1890/1891, Volume I, pp. 10-17, 37-42
Tradotto in italiano indirettamente dalle traduzioni in lingua inglese/francese presenti sul MIA, e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, marzo 2018
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