Nicolao Merker (1931-2016) è stato mio professore alla Sapienza nel 1996. Sei anni fa ebbi l’occasione di incontrarlo nuovamente nell’ambito di un seminario di studi dedicato al pensiero di Marx, quando si accingeva a pubblicare, per l’editore Laterza, una nuova biografia del filosofo di Treviri (Karl Marx. Vita e opere, Laterza 2011). In quel convegno si alternarono prospettive eterogenee e in parte stravaganti sul pensiero di Marx; rammento in particolare le osservazioni introduttive di Stefano Petrucciani, la prolusione critica di Francesco S. Trincia e la lettura “idealista” proposta da Diego Fusaro. Nella platea gli altri relatori (eravamo circa una trentina) bofonchiavano, sogghignavano o approvavano le diverse rivisitazioni della filosofia marxiana.
Placido come di consueto, si accomodò al microfono il professor Merker, invitato anche a presentare la sua nuova opera biografica. Rispetto a vent’anni prima, il tono era immutato: calmo, sereno e sorridente, egli esordì con una battuta fulminante: “Come direbbe Aristotele – cominciò – di Marx si può parlare in molti modi. Poi, però, c’è la storia”.
Merker naturalmente non ignorava affatto la complessità del dibattito sull’oggettività della ricostruzione storica, e tantomeno intendeva trascurare l’importanza dell’interpretazione filosofica. Tuttavia il suo invito nascondeva un pensiero più profondo. Lo intuii, e mi ripromisi di leggere la sua biografia di Marx, cosa che ho colpevolmente rinviato, e che ho portato a termine soltanto ieri, con cinque anni di ritardo, senza avere più la possibilità di discuterne con l’autore.
La ricostruzione che Merker offre al lettore, è una narrazione piana, una sorta di ritratto naturale di un Marx studioso, non estraneo alla lotta politica, ma neanche assorbito dalla militanza. Per le abitudini, il senso del ruolo dell’intellettuale, e per le sue scelte di vita, anche quelle apparentemente più insignificanti, come l’individuazione dell’abitazione o l’educazione delle figlie, Marx è definitivamente restituito alla sua epoca. Un uomo dell’Ottocento, semplicemente un titanico intellettuale ottocentesco. La prima ragione di questa ponderazione ricostruttiva di Merker non giace soltanto nel suo amore per la verità storiografica, ma anche per mettere al riparo l’immagine di un autore così importante dalle innumerevoli varianti offerte dai marxismi novecenteschi. Tuttavia, vi è anche un’altra ragione, più complessa, che sta alla base di questa scelta, su cui tornerò a breve.
Come molti sanno, i genitori di Marx provenivano da generazioni di famiglie ebraiche, e il padre del filosofo, Heinrich Marx, era un procuratore legale benestante. Uomo pratico e sensibile all’importanza delle professioni giuridiche, che avrebbe aspirato anche per suo figlio una carriera improntata allo studio e all’applicazione della legge in territorio tedesco. Ma la Germania nei primi decenni dell’Ottocento (Marx nasce a Treviri, in Renania, nel 1818), non era un territorio omogeneo né ordinato. Alcune delle sue regioni ancora tendevano a confondersi, per costumi e per paesaggio, con la Francia orientale. Gravavano sulle diverse aree di lingua tedesca il peso della Restaurazione ma pure il lascito delle imprese napoleoniche. Si affermava già, come potenza egemone, la Prussia, che come ricompensa per il suo ruolo decisivo nel contrasto a Bonaparte, ottenne il controllo proprio sulla Renania, una delle regioni più industrializzate d’Europa, in quegli anni. Gli interessi di studio del giovane Marx slittarono rapidamente dall’ambito giuridico a quello mitologico-letterario, per poi approdare alla filosofia. Marx conduceva un’esistenza che Merker definisce “scapigliata”, tra interessi intellettuali e gli schiamazzi notturni. In una lettera al padre del 10 novembre 1837, egli annunciò una sorta di sublimazione degli interessi giuridici, segnalando di voler abbandonare lo studio del diritto per risalire alla sua stessa fondazione, alla filosofia del diritto. Sono gli anni in cui agirono potentemente nella maturazione intellettuale di Marx le filosofie di Kant, di Fichte e soprattutto di Hegel, intorno alla quale erano consumate lunghe discussioni con gli altri “ragazzi” della sinistra hegeliana.
Il giovane Marx, ci ricorda Merker, era sostanzialmente un liberale, e aveva un’idea dello Stato molto simile a quella hegeliana. Nei suoi articoli di denuncia, pubblicati sulla Reinische Zeitung, certamente criticava le azioni statuali in difesa degli interessi borghesi o proprietari in generale. Ma questa critica aveva ancora il sapore di un rimprovero all’istituzione, rispetto al suo venir meno a una natura (o essenza) assai più legittima, quella dello Stato come potere universale. Scrive Merker: «lo Stato ha dunque per il Marx del 1842-43 una sua universale natura etico-razionale» (p. 33). Questa convinzione lo spingeva dunque a criticare le istituzioni pubbliche quando legiferavano contro i furti di legna, esprimendo così soltanto gli interessi del ceto dei proprietari terrieri, a discapito dei contadini. Sia nella Francia post-rivoluzionaria, quanto nella feudale Germania ottocentesca, Marx ravvisava i segni di una profonda ipocrisia. Nel primo caso, l’egualitarismo formale si agganciava sistematicamente a una frode sostanziale. Ad esempio, la secolarizzazione della proprietà ecclesiastica ha di fatto danneggiato i poveri che facevano conto su quanto garantito dai monasteri per poter sopravvivere. Nel secondo caso, la disuguaglianza troneggiava nella sostanza come nella forma.
Intorno al 1842 Marx cominciò a lavorare alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. L’intero libro di Marx si basava su un’argomentazione mutuata da Feuerbach, il quale aveva insistito sul difetto della dialettica di Hegel, consistente nel ribaltamento dei rapporti tra soggetto e predicato. Marx la recuperava per spiegare come i concetti di sovranità, Costituzione o monarchia, fossero stati da Hegel considerati come forme concrete, di cui le esperienze empiriche sarebbero solo momenti contingenti. Al contrario, Marx cercava di dimostrare proprio come quei concetti universali fossero dei costrutti che Hegel derivava dall’empiria.
Bisognerà attendere il biennio 1843-44 per leggere nelle pagine di Marx l’idea di uno Stato come intimamente connesso all’oppressione della classe dominante. Cominciava infatti ad affiorare una rappresentazione del potere politico come inscindibilmente definito da una componente classista. Fu forse proprio questa nuova visione dello Stato, insieme all’amicizia con Friedrich Engels, a orientarlo verso un approfondimento dei temi economici, il cui primo e straordinario frutto furono i Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Merker dedica pagine importanti alla miseria in cui Marx era costretto a vivere nel suo esilio londinese. Egli scrive: «per una famiglia priva di entrate stabili come i Marx, Londra significò anni di miseria, talora di letterale povertà proletaria. Le statistiche del tempo dicono che 20 o 30 mila persone uscivano di casa ogni mattina senza sapere come avrebbero cenato. Spesso ciò accadeva anche a Marx che di casa, talvolta, nemmeno poteva uscire essendo i vestiti impegnati al Monte di Pietà. Si mangiava pane e patate, non c’era denaro per la carne» (p. 86). La salvezza di Marx, come per molti intellettuali avvezzi alla povertà, fu la biblioteca del British Museum, dove vi si “trasferì” a studiare in orario diurno, dalle 9 alle 19, per poi rimettere in ordine, nottetempo, i propri appunti. Merker ci racconta di Marx come di uno scienziato infaticabile, costretto a fermarsi soltanto per via della propria malattia al fegato, i cui tormenti sovente gli impedivano di lavorare. Ma pure alcuni difetti dettati dalle ristrettezze non sono celati dal biografo, che anzi ce lo rende più umano, quando nelle sue costanti richieste di aiuto economico a Engels omette di dedicare al suo amico la necessaria premura, nei giorni successivi a un grave lutto che lo aveva colpito.
Nelle pagine dedicate alla fase di ricerca che precede la stesura del Capitale, Merker non dimentica di lasciar cadere qualche boccone avvelenato per tutti quegli interpreti che forzando l’autore hanno voluto fare dei Grundrisse chissà quale miniera di informazioni nascoste. Marx era molto scrupoloso nella selezione del materiale per la pubblicazione. La storia dei Grundrisse è in fondo quella di una curiosa infatuazione per un materiale grezzo, poi definitivamente superato dalla scrittura del suo capolavoro di economia politica e filosofia insieme.
A mio parere Merker, con questo libro, non intendeva semplicemente ricostruire un profilo di Marx da mettere a disposizione del lettore italiano, attraverso una lineare rievocazione storica. Riprendendo una posizione che affonda le proprie radici nel pensiero di Della Volpe e Bobbio, Merker pare voler collegare la dimensione ottocentesca del filosofo a una difficoltà nel comprendere a fondo la natura dello Stato, per cogliere la quale occorreva in qualche modo osservare il secolo diciannovesimo guardandosi indietro. Non a caso in più di un’occasione Merker cita il vecchio Engels, il quale sul finir del secolo riconosceva l’errore commesso da lui e il suo più illustre collaboratore, nell’immaginare la necessità di una rivoluzione come colpo di mano armato, come esito del protagonismo di un’avanguardia operai più cosciente dell’intera classe sociale d’appartenenza. La potente analisi economica era stata troppo debole sul piano del diritto, e in particolare – secondo Merker – sul terreno dei diritti umani. In fondo lo Stato, che nella Miseria della filosofia e nel Manifesto era inequivocabilmente definito come strumento di dominio per essenza, dovrebbe – a rigore – diventare mezzo di cui impossessarsi anche per il rovesciamento della società capitalista, ad opera di un proletariato che avrebbe così assunto le leve del comando, ricorrendo alla dittatura, per approdare infine allo sviluppo accelerato delle forze produttive e, da qui, all’abolizione delle classi. Ma con queste ultime, anche lo Stato, nella visione di Marx, sarebbe poi stato abolito. Pesò molto qui anche la discussione con Bakunin e l’universo anarchico.
Certamente l’esperienza della Comune di Parigi indusse Marx a cogliere l’importanza delle rivendicazioni politiche della classe operaia, quelle “vertenze” cioè che si proponevano nella forma della pressione sul potere legislativo affinché venissero adottate norme di allargamento del suffragio o della riduzione dell’orario di lavoro. Il proletariato, nella sua prospettiva, si manteneva così in agitazione contro l’uso strumentale della politica da parte delle classi dominanti, ma anche contro l’antipolitica, che li avrebbe resi delle vere e proprie marionette nelle mani della borghesia.
Il diritto borghese tuttavia non solo dev’essere utilizzato nella fase della lotta per ottenere passaggi in avanti in direzione emancipatrice. Esso è necessario anche nella prima fase della dittatura del proletariato, per essere poi superato con un “diritto diseguale” (il vero diritto socialista), che al di là di ogni formalismo riconosce le differenze di capacità e bisogni tra gli individui.
Eppure, osserva Merker, nonostante la riottosità di Marx a definire il quadro di una possibile società futura, non si poteva ignorare il fatto che il problema dell’organizzazione dello Stato e del diritto sarebbe prima o poi riemerso. Qualunque fosse la natura dell’associazione comunista, non avrebbe mai potuto essere pensata senza strumenti di controllo e governo: «certo – scrive Merker – non una statualità che sostenesse il potere della classe dominante, trattandosi di una società senza classi: ma ciò suggerisce che la funzione classista dello Statonon esaurisce l’intera natura di esso, bensì è solo una delle sue funzioni, estoricamente ben determinata» (p. 163). Non è una questione da liquidare pensando all’ineffabilità del futuro. Capire che lo Stato fosse una struttura ontologica della vita associata tra gli uomini, in un certo senso, così come in qualche modo era portato a ritenere lo stesso giovane Marx nella sua fase hegeliana, ha certamente un peso nella progettazione stessa del proprio lavoro politico. È ancora Engels ad essere citato per quel che scrisse nel 1895 evidenziando l’importanza, per le forze rivoluzionarie, di ricorrere piuttosto ai mezzi legali, ricorrendo alle armi nel solo caso di un tentativo delle classi dominanti di rimuovere l’assetto democratico a causa degli eccessivi successi delle masse lavoratrici. Il vecchio Engels indicava perciò nella via democratica l’orizzonte maggiormente auspicabile dai socialisti. Quel che c’è di vero in questa analisi engelsiana, Merker lo lascia intendere con chiarezza quando sottolinea che il nazismo «sarebbe stato evitabile con un popolo addestrato a difendere lo Stato di diritto» (p. 188).
In questa biografia vi sono almeno altri due nodi concettuali importanti che vengono messi a fuoco dall’autore: la natura dell’ideologia, e la presenza del plusvalore nelle società socialiste, ma non è questo il momento di problematizzare quei temi.
Che in fondo alla ricostruzione di Merker ci fosse l’obiettivo di far emergere dalla storia stessa di quegli uomini e quei tempi il principale limite della prospettiva politico-rivoluzionaria, lo si evince dall’ultimo capitolo, sintomaticamente intitolato Gli orologi della storia. Egli scrive infatti: «l’aver identificato lo Statosoltanto con una delle funzioni storicamente concresciutegli, cioè con la difesa degli interessi di classe, portò in definitiva Marx (ed Engels che sulla comunità del futuro si espresse in modo analogo) a sorvolare sull’altra funzione di esso, quella di statuire norme di convenienza indispensabili a tutti, e condivise: ovvero diritti e doveri» (p. 212).
CARLO SCOGNAMIGLIO
foto tratta da rifondazione.it