Se siamo i primi noi a non ritenere centrale l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, non possiamo pretendere che i lavoratori sentano il bisogno di una simile evoluzione sociale ed egualitaria.
Se siamo i primi noi a ritenerci utili soltanto se rappresentati in Parlamento, allora ogni tentativo di sviluppo di politiche di mutuo soccorso e di assistenza verso i più deboli e sfruttati, sarà soltanto una “prassi” e non un punto del nostro programma “minimo“, da svolgersi nel quotidiano.
Se irridiamo le compagne e i compagni che rivendicano un ruolo per la giustizia sociale oggi senza vincolarla alla cambiale del governismo, da pagare ogni volta che c’è un passaggio elettorale, commettiamo errori peggiori di quelli del passato.
Se non ritroviamo un piano culturale della politica e un piano politico della cultura stessa, una funzione essenziale nel reciproco nutrimento di valori che provengono dallo studio del passato e dall’analisi del contingente, come possiamo pensare di offrire una visione alternativa concreta ai milioni di sfruttati moderni che non sanno di esserlo?
Condizioni sociali prive di cultura e di politica sono alla stregua della voracità del peggiore populismo e delle peggiori destre.
Non si tratta di riesumare alcun idealismo. Semmai si tratta di essere pragmatici nel rifiutare il carnet di concetti che hanno sedotto una sinistra corrotta dal riformismo governista, dal falso ideale della concretezza dei dati reali.
I dati reali dei padroni producono soltanto politiche che proteggono a loro volta quei dati, quei valori di crescita dei profitti e dello sfruttamento.
Per questo serve una pausa. Serve riunirsi, ritrovarsi, “riconoscersi” sapendo che le differenze esistono ma che sono inferiori alle ragioni per cui si può e si deve ricostruire un movimento comunista reale che ancora vuole abolire lo stato di cose presente.
(m.s.)
Foto di Hin und wieder gibts mal was. da Pixabay