La «linea rossa» c’è ma non è quella «umanitaria» che tenta di contrabbandare il presidente americano. «Ho ordinato di non attaccare per evitare 150 morti», ha detto Trump nella sua sceneggiata davanti alle telecamere.
Non c’è niente di magnanimo in questo atteggiamento: in realtà è il freddo calcolo che hanno fatto i generali del Pentagono sulle possibili perdite americane, dei loro alleati del Golfo e di Israele in caso di reazione iraniana. In loro non c’è niente di magnanimo: le monarchie del Golfo finanziarono con 55 miliardi di dollari Saddam Hussein nell’80 quando attaccò la repubblica islamica in una guerra di otto anni che fece un milione di morti.
I francesi fornirono agli iracheni caccia Super Etendard per bombardare le raffinerie iraniane mentre l’inviato di Reagan, Donald Rumsfeld, a Baghdad stringeva calorosamente la mano al rais iracheno. Poi Rumsfeld diventò ministro della Difesa con Bush junior e diede una bella mano per diffondere la fake news del secolo: le armi di distruzione di massa di Saddam per giustificare l’attacco del 2003.
Sì, in effetti gli americani hanno una linea rossa che varcano di frequente: quella della decenza nel diffondere informazioni false e verità manipolate. Gli iraniani hanno storicamente qualche motivo più di altri per diffidare di Washington, sin dal colpo di stato anglo-americano del 1953 contro Mossadeq, il leader laico e nazionalista che poteva cambiare le sorti del Paese.
Così come avvenne nel 2011 quando il segretario di stato Hillary Clinton incoraggiò gli sceicchi del Golfo e la Turchia a sostenere i jihadisti per abbattere Bashar Assad, il maggiore e storico alleato di Teheran nella regione. I jihadisti vennero presentati nelle riunioni internazionali come combattenti per la libertà: erano in realtà i guerrieri di una nuova e feroce guerra per procura.
Gli Usa nel 2014 lasciarono che l’Isis si prendesse mezzo Iraq e una parte della Siria per spezzare l’arco della mezzaluna sciita, dall’Iran all’Iraq, dalla Siria al Libano degli Hezbollah. Il Califfato a questo doveva servire: a tenere sotto pressione gli iraniani a partire dai confini iracheni. Non solo il progetto è fallito ma dal 2015 in Siria oltre agli iraniani ci sono i russi con le loro basi.
La questione centrale del rapporto Usa-Iran è che c’è una linea rossa invalicabile per ogni amministrazione americana: il riconoscimento della repubblica islamica. È il motivo per cui gli Stati Uniti nel Golfo del petrolio hanno un apparato militare imponente: Quinta Flotta in Barhein, migliaia di uomini in Qatar e Iraq (oltre che nel Nord siriano), basi in Arabia Saudita e in Turchia. Oltre all’alleato israeliano, unica potenza nucleare della regione.
A questo fa da corollario che gli Stati Uniti non abbandonano l’idea di un cambio di regime a Teheran. In poche parole questo Iran, così com’è, non può esistere sulla mappa della nazioni «normali». E anche per questo gli Stati Uniti non hanno mai seriamente contemplato di riprendere le relazioni diplomatiche interrotte nel 1979 con il sequestro degli ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran.
Almeno questo mi disse un giorno Gary Sick, consigliere di Ford e Carter per gli affari persiani, che rivelò come la Cia e gli iraniani si misero d’accordo per rinviare il rilascio degli ostaggi americani per favorire l’elezione di Reagan. Forse Trump, in vista della campagna elettorale, ha in mente qualche carta «iraniana»?
Quarant’anni di ostilità, comunque, in cui l’accordo sul nucleare del 2015 firmato dall’amministrazione Obama è stata una pausa importante: poteva essere decisivo ma si è rivelato non più di un time out. Per altro le sanzioni contro l’Iran furono soltanto in parte allentate: in realtà gli americani hanno continuato a punire banche e imprese straniere che intrattenevano rapporti commerciali e finanziari con gli iraniani infliggendo multe salatissime. Obama, messo sotto pressione da Israele e dall’Arabia saudita fece le cose a metà lasciando che poi fosse Trump a stracciare un accordo che era già lacerato e osteggiato in Iran dai puri e duri dei Pasdaran.
Gli Usa, Israele, le potenze sunnite del Golfo condividono il piano di fare fuori il regime sciita. Certo, come in Iraq nel 2003, non hanno alcuna idea di come sostituirlo. Mentre gli stati europei esitano e qualcuno già varca la «sua» linea rossa. Come ha fatto Salvini nel suo viaggio a Washington allineando l’Italia agli Usa: gli iraniani sono assai irritati tenendo presente gli storici legami tra Teheran e Roma sin dai tempi dell’Eni di Mattei ma qui nessuno dice nulla, dal capo del governo al ministro degli esteri. Ectoplasmi sulla linea rossa.
ALBERTO NEGRI
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