Contro il riarmo dell’Europa si muovono anche gli accademici. Carlo Rovelli, Flavio del Santo e Francesca Vidotto, fisici che lavorano in importanti università internazionali, hanno scritto un appello per opporsi al piano Von der Leyen di 800 miliardi di investimenti per rinforzare gli eserciti dei ventisette Paesi europei.
«I politici stanno reagendo in modo affrettato e miope con un appello a mobilitare, su scala continentale, una quantità colossale di risorse per produrre più strumenti di morte e distruzione» scrivono. «L’Europa si vuole preparare alla guerra, con nuove spese militari mai viste dalla seconda guerra mondiale. L’Europa è ora disposta a brandire le armi solo perché si sente esclusa?». In pochi giorni hanno raccolto quasi tremila firme di altri colleghi.
Gli appelli di categorie professionali su questioni che interessano tutte e tutti spesso lasciano perplessi. Su un tema come la guerra l’opinione degli scienziati non conta più di quella delle maestre o dei benzinai.
Stavolta, forse, è diverso. Nel riarmo dell’Europa gli scienziati, le università e gli enti di ricerca potrebbero svolgere un ruolo decisivo e, se si mettessero di traverso, potrebbero complicare i piani dell’Europa. L’appello di Rovelli e dei suoi colleghi allude a questa peculiarità proprio all’inizio del testo, quando si rivolge agli scienziati «molti impegnati anche in discipline coinvolte nella tecnologia militare».
Una corrente di pensiero piuttosto nutrita ritiene, o sostiene pubblicamente, che il piano di riarmo non serva davvero a fare la guerra ma piuttosto a rilanciare l’economia italiana. L’argomento è stato ben illustrato pochi giorni fa dall’economista Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera con l’esempio statunitense.
«Il boom di spesa in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti negli anni 50 e 60, per esempio, è legato interamente ai grandi progetti militari della Nasa. In generale, la ricerca in innovazione americana è intimamente intrecciata all’industria bellica e così è per le altre potenze militari» ha scritto.
«La guerra moderna si fonda sulla tecnologia: sistemi satellitari sovrani e piattaforme alimentate dall’intelligenza artificiale, in grado di connettere in tempo reale i segnali informativi con l’operatività degli interventi militari, hanno bisogno di una tecnologia che evolve rapidamente e che quindi deve essere sostenuta da un eco-sistema capace di spingere la frontiera della conoscenza».
È d’accordo il ministro della difesa Crosetto, secondo cui «investire nella difesa significa non solo rafforzare le forze armate, ma anche stimolare la crescita del nostro apparato produttivo e favorire l’occupazione, specialmente quella qualificata».
Il sottotesto è che un riarmo conviene a tutti, anche agli scienziati che oggi lamentano i tagli alle università: arriveranno tanti fondi per la ricerca, se dimostrerete che i vostri studi possono, anche alla lontana, contribuire alla sicurezza nazionale. È un patto col diavolo che i ricercatori statunitensi accettano sin dal Progetto Manhattan e che ha garantito flussi di finanziamento costanti, in primis alla Silicon Valley.
La palla dunque sta ai ricercatori. Se il piano di Von der Leyen sarà approvato, molti di loro, soprattutto nei dipartimenti di fisica, ingegneria o informatica, accetteranno i fondi militari per portare avanti ricerche dual use, a scopo civile e militare.
Se invece, come suggerisce l’appello, università e enti di ricerca rifiuteranno di arruolarsi e di tenere la ricerca bellica o dual use fuori dal loro perimetro, presentare ReArm Europe come il nuovo piano Marshall sarà molto più difficile.
ANDREA CAPOCCI
foto: screenshot tv