Credo di aver scritto da qualche parte, e non so nemmeno quando, che attraversando le varie esperienze politiche degli ultimi trent’anni, abbiamo progressivamente smarrito la connessione tra ciò che dicevamo di essere e ciò che realmente eravamo diventati o stavamo diventando.
La nascita di Rifondazione Comunista è avvenuta per impedire che una cultura dell’alternativa di società, dell’anticapialismo, e quindi il movimento “che abolisce lo stato di cose presente”, venissero meno in un contesto come quello propriamente italiano, volendo riaffermare la necessità della presenza dei comunisti ovviamente non solo nello Stivale ma come elemento imprescindibile per capovolgere l’ingiusto e trasformarlo nel suo esatto opposto.
Senza una cultura dell’uguaglianza sociale, senza un profonda sintesi tra pensiero e azione, tra idee e fatti da concretizzare, non può esservi una vera rappresentanza delle istanze sociali, delle rivendicazioni dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, di tutti gli sfruttati.
Le parole sono state ovviamente le prime vittime, perché nel momento in cui si disperdono le idee, anche le parole ad esse connesse vengono scemando e sembrano sempre più ferrivecchi del passato, quanto meno qualcosa che non si manda magari in un baule in soffitta ma che si contempla senza affidargli più un compito; si evita quindi una relazione con i concetti e, così facendo, si trasforma la cultura politica e sociale di riferimento e si modificano, di conseguenza, le azioni che si vogliono compiere. Magari senza rendersene conto. Ed è quanto è accaduto e sta accadendo in una lunga traversata nel deserto dell’esclusione politica della sinistra e dei comunisti dalla scena politica nazionale e da tante piccole scene politiche e sociali locali.
Un partito comunista propriamente detto è formato da iscritte ed iscritti, da compagne e compagni che dovrebbero fare riferimento a valori culturali che ne determinano la capacità critica di elaborazione delle contraddizioni in cui viviamo: davanti allo scempio dei diritti sociali e civili che viene fatto dal liberismo, i comunisti devono essere in grado di riconoscere le ingiustizie non solo su un piano meramente morale, come pretende di fare da millenni la doppiezza della Chiesa cattolica, potere economico che ha sostenuto tanti poteri politici e potere politico che si fa sostenere da tanti poteri economici, ma più ancora su un piano di analisi di classe.
I comunisti non sono amici dei poveri. I comunisti possono e devono provare indignazione per lo stato di miseria in cui versano i poveri, ma non possono fermarsi a ciò. Devono sapere che lo stato di povertà non è “naturale”, “normale” o connaturato alla società genericamente intesa: la povertà è frutto dei rapporti di proprietà che si sono determinati e che vedono sempre padroni e sfruttati in lotta fra loro per determinare il corso della storia del genere umano.
Spesso, invece, ci si rivolge al “mutualismo” come pratica politica che deve informare una nuova cultura di massa tra le giovani generazioni in quanto a sedimentazione della lotta sociale. E lo si fa senza nemmeno definirsi comunisti. Sento dire che è “banale” farlo, che è scontato “che siamo comunisti”. Invece non è per niente un dato di fatto, qualcosa di scontato e di comprensibile quasi in un apriorismo dei contenuti lasciati alla valutazione del singolo che assiste al nostro “mutualismo”.
Di per sé il mutualismo non ci parla di critica del capitalismo ma solamente di attacco alla povertà come elemento strutturale.
Quante volte ci ricordiamo che essere comunisti deve significare lottare per abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione?
Quante volte ci ricordiamo che dirsi ed essere comunisti vuol dire avere chiaro che non si può definirsi “popolari” per essere dalla parte del popolo?
“Potere al popolo!” vuole costituirsi come soggetto politico? Lo faccia. Ma un partito comunista è altra cosa. E’ contraddizione, errore, capacità di sbagliare magari provando a condizionare quei rapporti di forza di cui sovente si tiene davvero poco conto anche in quelle percentuali elettorali definite come trascurabili, perché le elezioni politiche (o le elezioni in generale) sarebbero trascurabili.
Importanti, certo, ma trascurabili. Questa impostazione culturale è un problema appunto culturale: a me, ad esempio, non appartiene, da comunista libertario, una codificazione del momento elettorale come un accidente da affrontare con una certa insofferenza.
Non attribuisco alla delega popolare l’assoluta importanza di essere determinante per il capovolgimento della società; nemmeno penso che sia così rilevante per redistribuire i rapporti di forza al di fuori del Parlamento, ma sarebbe infantilismo politico ritenere primario un lavoro sociale legato alla politica (che i comunisti hanno sempre cercato di fare, molto prima che alcuni di “Potere al popolo!” ce lo venissero ad insegnare) e sganciato dal contesto delle istituzioni repubblicane.
La Repubblica è la forma di Stato più avanzata possibile – riconosciuta tale anche da Marx ed Engels – in quanto a raggiungimento del potere mediante anche l’acquisizione di un ruolo egemone, preminente e indiscutibile in seno proprio al potere delegato dal suffragio universale.
Se ne ritrova ampia letteratura in merito negli scritti della “Lega dei comunisti”, nel programma del Partito Comunista Tedesco e in molte altre elaborazioni ed analisi dei maggiori esponenti del socialismo di fine ‘800.
Ferrivecchi, lo so. Eppure sono lontane eco di una cultura che abbiamo disperso e che dobbiamo recuperare.
La cultura comunista non può sciogliersi dentro un indistinto calderone di genericità, diventare “popolare” e trasformarsi in un ribellismo che prescinde dalla forma-partito, che non assume il comunismo come luogo dove sviluppare il movimento politico e sociale.
Dunque, è davvero molto poco interessante la contrarietà radicale nei confronti del capitalismo se non proviene da una consapevolezza che una nuova generazione di comuniste e di comunisti è necessaria e che un partito comunista è necessario e non semplicemente un assemblaggio di istinti ribelli che si muovono in mille direzioni differenti se declinati al singolare e che, pertanto, trovano una sintesi esclusivamente nel reclamare un “potere popolare” fondato su un assistenzialismo mutualistico che è peggiore del riformismo socialista degli ultimi decenni, che ha visto scomparire anche le migliori esperienze che si richiamavano alla tradizione del movimento portato avanti da Turati e Nenni.
L’avanzata di una destra nuova, di un nuovo polo dell’anticostituzionalismo ispirato da una voglia di “cambiamento” attraverso un governo che si vuole imporre al Presidente della Repubblica con una contrapposizione di campo netta, senza dialogo alcuno, senza rispetto per i ruoli dettati dalla Carta del 1948, l’impeto con cui tutto questo avviene dovrebbe ricordarci che purtroppo oggi, come del resto anche in passato, in assenza sempre maggiore di una cultura sociale di base emanata da una grande forza comunista non presente nel Paese, in mancanza di un punto di riferimento alternativo rispetto alla vulgata comune, unica cultura politica, di destra unica e plurale, siamo in presenza di un tentativo autoritario di travolgere la democrazia lasciandone le apparenze.
Con le apparenze, alla fine, si finisce per essere strangolati. L’aria viene sempre più a mancare seppur apparentemente in un regime sempre democratico.
Il pericolo rappresentato dall’asse Lega – movimento 5 Stelle è dato proprio dal fatto che in apparenza sono forze sociali, che vogliono risolvere la crisi economica, che vogliono abolire riforme fatte da quella che ancora impropriamente viene chiamata “sinistra” e che non sa bene che opposizione fare.
Senza una rinascita del movimento comunista, di un partito comunista, ma soprattutto – e prima di tutto – di una cultura comunista, quindi di una visione coscienziosa che è possibile una alternativa sociale fondata su princìpi egualitari e solidali, di classe, di parte, non universali, non riferiti a tutto il popolo (perché attualmente il popolo non è in grado di comprendere che quando si parla di lui ci si vuole riferire ad una parte di esso, alla maggioranza degli sfruttati!) non può esservi rinascita della sinistra.
Senza dialogo con le altre forze politiche di sinistra rimaste, senza un confronto tra comunisti e socialisti di sinistra (o socialdemocratici) non si potrà arrivare ad una riproposizione delle istanze anticapitaliste e antiliberiste in una formula unitaria, riconoscibile come quarto polo rispetto agli altri.
Tutti i tentativi fatti fino ad ora di costruire un quarto polo sono falliti. L’unico che poteva avere un futuro è stato il momento di costruzione della “Federazione della Sinistra” dove con i comunisti convivevano anche soggetti apertamente riformisti. La seduzione del potere ha infranto quell’esperimento.
Riproporlo in forme diverse ma simili non sarebbe una sciocchezza, ma un atto di buonsenso politico e di dovere morale verso il “popolo”: fuori dai settarismi, dagli isolazionismi e attenti a non cadere nella compromissione finalizzata al mero governismo o ad un impossibile orrorifico sogno di nuovo centrosinistra.
Come recitava un famoso spot televisivo di Rifondazione nel 1992…: “C’è bisogno di opposizione, c’è bisogno dei comunisti!”.
MARCO SFERINI
27 maggio 2018