Prendete un atlante storico qualsiasi, magari con carte geopolitiche ben delineate e non approssimative nei confini di terra e di mare. Sfogliatelo nelle pagine dove trovate, ad esempio, l’Italia al tempo della pace di Lodi: in quei decenni della metà del ‘400, Goro e Gorino non esistevano. Il delta del Po, infatti, non si era ancora formato così come oggi lo possiamo osservare e molte località che poi sono diventate tali, sulla parte più estrema d’Italia che si getta nell’Adriatico, non erano segnalabili su nessuna carta geografica.
Ciò che non esiste, semplicemente, non è considerabile come reale. Poi il grande fiume ha prodotto sedimenti così a lungo nei secoli che un pezzetto d’Italia si è formato solo grazie ad un processo geologico e biologico: una terra nata non dal ritiro delle acque in epoche molto, molto lontane da noi, ma per accrescimento di strati di pezzi di altre terre che dal Monviso venivano trascinate alla fine del percorso, là dove si vedeva il mare.
Goro e Gorino sono nate, quindi, su una terra di nessuno, su un pezzo d’Italia che è un’appendice, un qualcosa di “inferiore” persino ad un’isola, se proprio vogliamo classificare come “propriamente detta” una terra che esiste da sempre e altri pezzi che vi si aggiungono per fenomeni naturali molto lenti, diluiti nella fluidità incessante del tempo.
Così è avvenuto per zone della Toscana e per il litorale laziale. Ma oggi parliamo di Gorino, di una frazione di un comune della Repubblica dove i cittadini innalzano barricate di bancali di legno in mezzo all’unica strada che li collega al resto del mondo e impediscono a un gruppo di donne e bambini migranti di avere un aiuto, di avere un po’ di solidarietà dopo chissà quale viaggio della disperazione attraverso il Mediterraneo.
La salvezza e un minimo di accoglienza non sono mai veramente garantiti, anche quando il prefetto locale prova a trovare una soluzione umanitaria per questi ultimi della terra che fuggono non per il piacere di viaggiare e fare una crociera su un barcone con gli scafisti, ma per trovare sopravvivenza, per ricominciare a vivere.
Gli abitanti di Gorino sono poche centinaia. Vivono di pesca: vongole per la maggiore. Ora, oltre ai mitili che tirano su dal mare, saranno famosi anche per le barricate, per aver vinto una battaglia di respingimento con parole e frasi, atti e gesti che giurano e stragiurano “non sono razzisti”.
“Non li vogliamo. Viviamo ancora con le finestre aperte d’estate e anche d’inverno. Non c’è criminalità qui e non vogliamo che le cose cambino.”. Oppure: “Vogliono portare qui una donna incinta: ma lo sanno che il primo ambulatorio medico è a 50 km di distanza?”.
Oppure ancora: “Donne e bambini non ci fanno paura, ma dietro loro sarebbero venuti anche i mariti”. Quelli fanno paura.
E’ molto difficile classificare questo modello di respingimento di esseri umani che chiedono aiuto: prima d’ora avremmo detto che, se nasce dalla paura del diverso, se nasce dal timore che lo status quo cambi, se nasce dal fatto che “questa è casa mia e qui comando io”, una certissima dose di razzismo c’è in un comportamento che rifiuta l’accoglienza, che rifiuta l’aiuto, la mano tesa e che oppone la mano a palmo aperto in segno di “stop!”, “alt!”.
Gli abitanti barricaderi di Gorino però, giurano, non sono razzisti e lo fanno per preservare l’economia della loro terra nata dopo il 1450 dai sedimenti del Po.
Hanno solo un bar dove potersi divertire e la cattiva prefettura glielo confisca senza dire loro nulla. Va bene, scivolone comunicativo da parte delle istituzioni? Giuste critiche. E poi? Le barricate?
Le barricate sono il segnale di una paura che è razzismo, perché si può tranquillamente aver paura di un nuovo corso degli avvenimenti che ci capitano nella vita: è terribilmente umano. Ma non si può invocare la paura e separarla, in questo caso, dal razzismo.
Si trattava di una ventina scarsa di persone: di donne, di bambini. A quale tasso di indifferenza occorre arrivare per diventare così disumani da non accorgersi che domani potremmo essere noi dei richiedenti una mano tesa cui aggrapparci per salvarci.
Che bella la solidarietà per il terremoto: tutti pronti a donare soldi, a formare brigate di aiuto, a mostrarsi solidali. Poi arrivano un pugno di donne e pochi bambini e la solidarietà cambia colore. Perché finché si tratta di aiutare gli italiani, qualunque cosa accada, si riscopre repentinamente l’amor di Patria, ma quando un aiuto lo chiedono esseri umani uguali a noi ma non nati, per loro fortuna, in questo disgraziato Paese, allora la nostra mano si ritira, si cela dietro alla schiena e fischiettiamo con il naso all’insù, mostrando indifferenza, stupore, paura. Ma non razzismo. Non si dica che siamo razzisti.
E invece sì, il razzismo c’entra, perché c’entra un senso di superiorità dettato dall’autoctonia, dall’essere nati e vissuti in un determinato luogo e, quindi, sentirsi gli unici padroni di quel luogo, gli unici capaci di dettarvi una legge speciale che evade persino le ordinanze delle prefetture della Repubblica.
Ma Gorino non è la Repubblica. Sarà Italia, ma non è più la Repubblica che è la Costituzione. La Repubblica è un insieme di valori che danno forma allo Stato italiano. La Repubblica è l’abito di un luogo: un abito fatto di uguaglianza sociale, di solidarietà e di mutuo soccorso.
Gorino è in Italia grazie ai sedimenti del grande fiume padano, ma non è nella Repubblica.
Sinceramente spero possa tornarvi presto. La barricata fatta di bidoni e bancali, di gazebo, vino e carne alla brace, è una mortificazione dello spirito costituzionale e, prima ancora, di una umanità che perde sé stessa, che si trascina in una vita fatta di timori privi di fondamento, alimentati da una propaganda becera che, evidentemente, penetra nelle residue coscienze trasformandole in incoscienze, in antri cavernosi dove abitano il pregiudizio e la diffidenza.
Restituite Gorino alla Repubblica: ridate dignità alla vostra frazione, ridatele la bellezza che merita e che il Po vi ha regalato in tanti secoli di caparbia, ostinata, incessante costruzione.
MARCO SFERINI
26 ottobre 2016
foto tratta da Pixabay