E’ doveroso far notare come la comparazione tra Resistenza e Risorgimento, pur tentata ieri nel corso delle celebrazioni del 25 aprile dallo stesso Presidente della Repubblica, sia questione da maneggiare con cura e grande attenzione.
Essenzialmente essa va valutata sotto questi aspetti che è il caso di ricordare per buona memoria: l’interpretazione gramsciana del Risorgimento che rimane punto di analisi insuperabile: Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, attraverso un travagliato percorso aveva prodotto lo stato unitario. A suo avviso tale processo era stato diretto fondamentalmente da forze moderate e il cosiddetto Partito d’Azione (cioè il complesso di forze che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si era rivelato incapace di svolgere un’opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo. Quella risorgimentale è stata, per usare un’espressione gramsciana, una “rivoluzione mancata”.
L’interpretazione fondativa della Resistenza come fatto storico è stata data, invece, da Claudio Pavone, nel 1991 attraverso il suo saggio “Una guerra Civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Frutto di anni di riflessioni e di ricerche “Una guerra civile”tocca– basandosi su un’amplissima gamma di fonti – diversi temi di grande rilievo: dal valore fondante della scelta compiuta l’8 settembre al problema della violenza, al rapporto tra politica e morale. Si tratta di una rilettura della storia degli anni 1943-1945 ferma nel sottolineare l’importanza decisiva della lotta di liberazione per la riconquista della dignità nazionale e per una vera rinascita di quella patria di cui era di moda allora quando Pavone scrisse ma anche adesso, nell’incipiente clima del «revisionismo», far risalire la morte all’8 settembre 1943. Ma nel saggio di Pavone si nota altrettanta attenzione a far risaltare differenze e chiaroscuri. Da un lato si distingue fra una «Resistenza in senso forte», la guerra partigiana combattuta soprattutto al Nord da una cospicua minoranza, e una «Resistenza in senso ampio e traslato», che era man mano diventata – anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne o manometterne la memoria – l’elemento legittimante del sistema politico repubblicano edulcorandone in parte il significato più profondo. Dall’altro interpreta la Resistenza a un tempo come guerra patriottica, combattuta per liberare il paese dall’occupazione tedesca e sentita in sostanza come nuova «guerra d’indipendenza», guerra civile, tra combattenti partigiani e i fascisti della Repubblica di Salò, e guerra di classe, combattuta, soprattutto dai comunisti al Nord nel nome di una radicale trasformazione sociale.
Proprio sulla base dell’analisi di Pavone è necessario ancora sottolineare un altro punto di fondamentale differenza con la fase risorgimentale. La Resistenza si sviluppò in forme diverse da una parte all’altra del Paese a causa della complessità degli eventi bellici che accaddero nella penisola nel corso del biennio 1943 – 45 ma è stato soprattutto al Nord, nel triangolo industriale, dove il nesso tra partecipazione popolare e restituzione della dignità nazionale, toccò la sua punta più elevata: quella forma di Resistenza che consentì di sottrarre l’Italia alla sudditanza agli Alleati e di recuperare immediatamente lo sviluppo politico di una democrazia che era stata coartata dal fascismo per oltre 20 anni. Non solo quella democrazia risultò comunque essere di tipo nuovo e non semplice ritorno alla “democrazia dei notabili” come da più parti si era pensato di realizzare. Il fatto decisivo in questo senso, prima ancora della formazione dei grandi partiti di massa che poi rappresentò l’elemento portante della forma di Stato repubblicana almeno per i suoi primi 50 anni, fu rappresentato da come avvenne la Liberazione delle grandi città del triangolo industriale e in particolare di Genova che si verificò in condizioni del tutto originali rispetto al contesto europeo con la resa delle truppe tedesche direttamente alle brigate partigiane.
Da lì, principalmente dall’esito della Resistenza in quel contesto sociale e politico dominato dalla presenza della classe operaia delle grandi fabbriche, derivò il processo politico che permise negli anni immediatamente successivi di stabilire, attraverso l’esito del Referendum istituzionale e il lavoro dell’Assemblea Costituente condizioni di agibilità della democrazia affatto diverse da quelle risorgimentali. Pur con contraddizioni, ritardi, vere e proprie battute d’arresto che non possono essere sottaciute, ma comunque verificatesi all’interno di un moto storico di evidente progresso sotto i fondamentali aspetti dello sviluppo economico e dell’uguaglianza sociale.
Se si pensa, infine, che tra il Risorgimento e la Resistenza intercorrono fatti storici di grandissima portata come l’aver trascinato l’Italia nella follia di due guerre mondiali, un ventennio di dittatura, l’esito grottesco dell’istituto monarchico dopo l’8 settembre, si comprende bene come – appunto – si cercava di sostenere all’inizio, certe comparazioni, soltanto ritualmente patriottiche, vadano ben più attentamente considerate nel loro sviluppo soprattutto sul piano storico.
FRANCO ASTENGO
26 aprile 2018
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