Il sentimento di «rabbia, nausea e sconforto», come scrive Grillo sul suo blog, è l’altra faccia della medaglia che l’indecoroso spettacolo del voto di fiducia sulla legge elettorale provoca nei cittadini. Naturalmente quelli rimasti con la voglia di votare, sempre meno numerosi perché «forza astensionismo» è il partito che oggi, insieme al M5S, affronta la campagna elettorale con il vento in poppa.
Avranno ragione da vendere Grillo e i suoi sostenitori a indicare in Renzi e Berlusconi i mandanti di una legge contro il M5S.
Ma questa è anche una legge elettorale contro la sinistra che cerca di rimettersi in campo tra mille difficoltà. Liste civiche dell’1 per cento e accozzaglie vendute come coalizioni sono favorite mentre è tutta in salita la strada di chi propone una lista di alternativa, povera di mezzi (e di idee forti: il superticket non basta) quanto ricca di scissioni e di personalismi.
Certo non è solo la legge elettorale a penalizzarla. Il tessuto sociale è lacerato, il rapporto stesso tra democrazia e rappresentanza è un campo di battaglia.
Ne abbiamo avuto conferma proprio in questi giorni quando il secessionista catalano Puigdemont, nel suo discorso al parlamento, ha buttato esplicitamente sul tavolo del conflitto spagnolo la democrazia giocandola contro la Costituzione («C’è democrazia anche al di là della costituzione»).
Nel nostro paese con il referendum abbiamo messo in sicurezza la Carta senza tuttavia risolvere la crisi del consenso e della rappresentanza. Annullare la discussione, il conflitto e la battaglia sulla legge elettorale se da una parte acuisce la crisi politico-parlamentare, dall’altra suggerisce fughe plebiscitarie e ridà il megafono a chi urla «sono tutti uguali», specialmente tra le giovani generazioni.
Il capo chino di Anna Finocchiaro, ministra dei rapporti con il parlamento, mentre legge, tra le urla dell’aula, la richiesta del governo di porre la fiducia sulla legge elettorale è l’immagine cupa e imbarazzante di un fallimento politico. Da intestare innanzitutto al rottamatore di Rignano.
Il segretario del Pd voleva scassare la Costituzione a colpi di «o me o il diluvio», «se perdo lascio tutto». Obiettivo fallito. Ma è riuscito invece pienamente nell’impresa di annullare il parlamento soffocandolo con il record di due leggi elettorali ottenute a colpi di voti di fiducia. Quel che non ha potuto cancellare ha tentato di svilirlo.
Del resto la democrazia oggi non si abbatte col cannone ma sfibrandone le istituzioni rappresentative.
La legislatura finisce lasciando sul terreno le macerie di una democrazia sempre più afasica e cingolata, e azzoppando definitivamente la reputazione di chi ci governa, a cominciare dal presidente del consiglio. Gentiloni ridotto al ruolo di mazziere in continuità con il peggior renzismo, quello delle forzature istituzionali del referendum e dell’Italicum.
L’annullamento del parlamento è brutale al punto che persino l’ex capo dello stato Napolitano fa sentire la sua voce. Anche lui, proprio lui che nel corso del suo doppio mandato ha più volte forzato la mano sugli assetti politici e di governo, oggi protesta contro la scelta di questa nuova camicia di forza della fiducia usata contro il parlamento. A volte succede che i discepoli superino i maestri.
Chi cerca di costruire una lista e una forza politica che non chiede di moltiplicare i confini, che difende gli anelli deboli della catena sociale, che lotta per l’uguaglianza dei diritti va contro il vento di una campagna elettorale che si trova davanti una missione impossibile. Il passaggio è stretto, il rischio dell’irrilevanza molto concreto. Dovrebbero essere altrettante, valide ragioni per accettare la sfida.
NORMA RANGERI
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