Vincere non gli riesce, ma di agonismo è pieno. Matteo Renzi è già in campagna elettorale anche se il voto – lo ha appena certificato Mattarella – è distante almeno otto mesi. Dall’assemblea dei circoli di Milano al tour per la presentazione del libro (in uscita), dalla festa nazionale di Imola al viaggio in treno «con la carrozza social», il segretario del Pd reagisce alle critiche e alle difficoltà della sua leadership nell’unico modo che conosce: la sfida. Sfida agli avversari interni, ai quali dice che risponderà al «popolo delle primarie» e non «ai caminetti» e ai «capi corrente». Sfida a quelli che sono già fuori o ancora sulla soglia, ieri simbolicamente concentrati a Roma; per loro il messaggio è «nessuna nostalgia dei tavoloni con dodici sigle che si chiamavano Unione, con loro l’Italia si è fermata».
Alla sfida del «campo largo» che rilancia Pisapia nella piazza (ristretta) che fu la sede dell’Ulivo, Renzi risponde immaginando il Pd come il centrosinistra in una sola lista, anche in funzione del rientrante Consultellum come sistema elettorale. Per questo fa sfilare nella due giorni milanese un po’ di società civile potenzialmente ospitabile sotto le insegne del partito: i citatissimi Mauro Berruto, allenatore e motivatore, Roberto Burioni, difensore dei vaccini, e Lucia Annibali, avvocata contro la violenza di genere. Tutto già visto all’epoca della prima «vocazione maggioritaria» e delle liste «aperte» di Veltroni (i candidati si chiamavano allora Calearo, Colaninno, Binetti…), e infatti il primo segretario del Pd è l’unico citato indirettamente da Renzi: «Ho nostalgia del Lingotto». Tutti gli altri ex leader che in queste settimane ne hanno smontato la linea, invece, sono accusati di passatismo: Prodi, D’Alema, Bersani «si occupano di riscrivere il passato mentre noi ci dedichiamo al futuro».
«Chi parla di centrosinistra senza il Pd vince il premio Nobel della fantasia», dice. Ma al ripetuto invito di essere più inclusivo – il famoso «passare dall’io al noi» – Renzi risponde sostanzialmente picche. L’inclusione la farà girando il paese con il suo libro – o il suo treno – e poi «noi senza io non funziona, se non comanda nessuno è l’inizio dell’anarchia». Chi comanda è già deciso: «Non possiamo fare le primarie ogni settimana, io rispondo a quei due milioni che nessuno aspettava» (in realtà un milione e ottocentomila, un milione e duecentomila per lui). Il messaggio per i «capi corrente» inquieti, primo fra tutti Dario Franceschini, non potrebbe essere più chiaro. Non bastasse, eccone un altro: «Volete la garanzia di andare in parlamento? Mettetevi in gioco, lavorate». Caduto l’incostituzionale premio di maggioranza, la corsa sarà per tutti più dura.
Intanto il «popolo delle primarie» e poi i regolamenti del Pd hanno regalato al segretario una maggioranza autosufficiente nell’assemblea nazionale e anche nella direzione, che adesso anticipa al prossimo 6 luglio non certo per l’analisi del voto sulla sconfitta alle amministrative – «vogliamo ancora parlarne?» – ma per chiudere con le «polemicucce».
Il riflesso, anche per il «rottamatore», è quello del centralismo contro le quinte colonne. Se non le elezioni vere, «nei sondaggi stavamo andando bene, arrivavamo al 32%» quando «è scattato il virus dell’autodistruzione a sinistra, attaccano me per attaccare il Pd». Mano tesa a Gentiloni, per reagire alla manovra di chi lavora sulle loro differenze: «Sta andando benissimo». Eppure solo «adesso», annuncia, «si parte sul serio». Condannato all’eterna ripartenza, giura: «Non mi faccio fermare da nessuno». Non certo dai «nostalgici di un passato meraviglioso che non è mai esistito». Ed è nella logica della «competition» che Renzi ha scambiato il posto con il suo secondo Martina e ha deciso di parlare ieri invece che venerdì, in modo da sovrapporsi nelle cronache a Pisapia.
«Ragioniamo con tutti», dice nel rispetto delle forme, però il «ragionamento» è sempre quello dei non trionfali mille giorni. Le «magliette gialle» che «adesso sono diventate un brand», il «non mi interessano i posti in parlamento ma i posti di lavoro», l’impegno a «ascoltare la gente e non la politica politicante romana», e persino la promessa di «lasciare l’aria condizionata e l’atmosfera ovattata dei palazzi» nel prossimo viaggio (in terza classe?) sui binari della penisola. Tutto questo perché, dice Renzi, «il Pd è l’unica diga contro i populisti».
ANDREA FABOZZI
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