Religione e filosofia nell’insolvibile diatriba del senso dell’esistente

La nostra parte inconscia, quella che nell’interpretazione freudiana è l’essenza del nostro vero essere, quel lato nascosto che ci fa fiorire ogni giorno differentemente, con una soluzione di continuità...

La nostra parte inconscia, quella che nell’interpretazione freudiana è l’essenza del nostro vero essere, quel lato nascosto che ci fa fiorire ogni giorno differentemente, con una soluzione di continuità costante che, tuttavia, sembra rispettare un flusso continuo ed anche costante nella diurnità della nostra consapevolezza ed autocoscienza, è un po’ l’oggetto della rappresentazione esistenziale tanto da parte delle religioni quanto da parte delle scuole filosofiche che si sono succedute nel corso dei millenni.

Affascinano tanto le azioni umane quanto le origini delle stesse che, molte volte, attribuiamo ad una natura di noi medesimi che diciamo incomprensibile: quando assistiamo a tragedie familiari che sfociano in brutali stragi, omicidi plurimi, stragi, oppure anche quando ci riferiamo ai conflitti, alle guerre e ci domandiamo fino a che punto l’essere umano possa arrivare e che cosa si prenda gioco di noi per farci diventare tanto crudeli, tanto poco empatici verso i nostri simili (per non parlare verso i nostri dissimili).

Questa irragionevolezza, che affonda le sue radici a prima vista in una istintività atavica, primordiale, endogena e tutta intrinsecamente riscontrabile nell’ambivalenza del carattere umano, dilaniato da sempre nell’oscillazione emotiva tra bene e male, nel discernimento tradito tra gli opposti di un’etica universale e particolare al tempo stesso, è molto più banalmente considerabile come un tratto espressivo di una declinazione soggettiva dei propri desideri così come delle proprie frustrazioni.

Un soggettivismo emotivo che, per quanto possa essere singolarmente considerabile, non è separabile dal contesto in cui si trova: perché la nostra vita è, che lo si voglia o no, una vita sociale. Per quanto ci si possa affannare nel ricercare un ascetismo che ci allontani spensieratamente dal resto del mondo, nel mondo siamo e rimaniano e non possiamo, se non altro, escluderci completamente dalle relazioni con i nostri simili. Differente è il discorso che si può fare, in questo senso, riguardo al rapporto con la Natura. Chi si allontana dalla cosiddetta “civiltà“, sovente lo fa proprio per ritrovare la propria essenza naturale.

Religioni e filosofia, si diceva, hanno tentato di indagare, con grande acume a volte e con notevoli preconcetti altre volte, l’interconnessione dell’umana apparente inconsapevolezza della parte nostra inconscia, morfeica, affidata al buio della notte e all’abbandono delle resistenze dell’Io propriamente detto e inteso, provando a comprenderla per darle un senso, un significato da affidare alla coscienza. Non era e non è tutt’oggi affatto semplice ammettere che esiste una parte di noi impenetrabile che, tuttavia, può emergere attraverso le immagini oniriche o, anche, quando ci affidiamo alla fantasia.

Questo rapporto tra mente razionale e mente irrazionale, tra oggettività del diurno e stranezza dei sogni è da Freud stato definito come una sorta di correlazione illusoria. Un prodotto, in sostanza, di un altro nostro desiderio: stabilire che esiste questa dualità, una specie di dialettica tra pensiero ragionato, concetto, elucubrazione e mondo interiore affidato all’essenza che viene a galla soltanto quando noi non poniamo più limiti alla nostra natura propriamente intesa come ciò che ci fa essere per quel che siamo ma che, in sostanza, noi tradiamo quando seguiamo schemi, premesse, logiche, leggi, dettami.

Uno dei tentativi, forse “inconsci“, di separare la mente dalle nostre passioni, il nostro essere presenti a noi stessi dai nostri desideri, soprattutto da quelli più inconfessabili perché – esattamente – riguardano trasgressioni che la società non accetta di buon grado, soprattutto se si tratta di questioni etiche, di morale, di convenzioni e tradizioni che formano l’identità dell’individuo che, quindi, intende preservare così l’intero corpo sociale (quello che Jung definiva come luogo dell’archetipo condiviso, definito “inconscio collettivo“), viene praticato nel momento in cui si tenta di non riconoscere la prevalenza dell’inconscio sul conscio.

Forse il termine “prevalenza” può ingannare, visto che si scrive qui di concetti che tentano di spiegare un punto di vista su questioni che riguardano emozioni e sensazioni con cui gestiamo tanto la razionalità quanto i desideri (e viceversa…). Diciamo che l’inconscio informa di sé stesso il conscio in modo carsico, indirettamente: noi percepiamo le contraddizioni che viviamo, ma spesso le neghiamo a noi medesimi per evitare di soffrire. Costruiamo delle difese messe dall’Io a guardia dell’Es.

Proprio nella differenza tra ciò che è convenzionalmente vissuto, quindi socialmente accettato, e ciò che singolarmente pensato, desiderato e voluto, sta la frustrazione dell’Io che pretende di dominare le passioni e che, inevitabilmente, finisce per esserne, se non completamente, almeno parzialmente dominato. Il rapporto tra religione e filosofia, proprio nell’analisi tra razionalità ed emotività, in un tutt’uno con il resto del mondo, conosce una davvero felice declinazione nel Buddismo. Fare affermazioni totalizzanti è sempre un rischio, per cui non diciamo che è la miglior filosofia che diviene religione o la migliore religione che si presta a filosofeggiare.

Diciamo che nel Buddismo l’incontro tra le due grandi sfere del pensiero, delle emozioni, della razionalità come della lettura metafisica dell’esistenza, dell’esistente e del mondo che ci riguarda, è un rendez vous molto affascinante e che, quindi merita qualche considerazione ulteriore. Molto interessante a tale proposito è un libro della psicologa americana, di scuola junghiana, Radmila Moacanin (“The essence of Jung’s Psychology and Tibetan Buddism“), per la verità piuttosto misconosciuto ma non per questo meno interessante rispetto ad altri testi equiparabili.

In questo lavoro, la studiosa approccia con un particolare tipo di Buddismo, quello cosiddetto “tantrico“, quindi tibetano e “Mahayana“, ossia del “Grande Veicolo” che, rifacendosi alle stesse ammissioni fatte da Jung, aveva singolari punti in comune con la psicologia analitica sviluppata dallo psichiatra svizzero. La questione della coscienza diurna e dell’incoscienza notturna in cui si situerebbe la nostra prima essenzialità, quella che ci fa rifiorire giorno dopo giorno e ogni giorno, è collocata in una specie di asetticità universale in cui confini, definizioni, strutture e sovrastrutture perdono di qualunque significato.

Se ci proiettiamo, infatti, nell’Universo o, per meglio dire, nell’infinito immaginabile e, tuttavia, inconcepibile razionalmente, scrive Jung che è più facile non tanto riflettere quanto ipotizzare anche il nulla come una assenza di caratteristiche: l’immensità non ha valore, perché l’infinito non si espande, ma è. Quindi vuoto e pieno cessano di essere degli opposti e perdono qualunque possibilità di classificazione mentale tipicamente umana. Scrive Jung in un testo del 1916 intitolato “Sette sermoni per i morti, scritto da Basilide di Alessandria, la città in cui Oriente e Occidente si incontrano“: «Ciò che è infinito ed eterno non ha qualità, dato che possiede tutte le qualità».

Preso atto che si tratta di una serie di scritti redatti dopo una sorta di presunta visione mistica che ebbe lo studioso elvetico e che, quindi, risentono di questo carattere peculiare divenendo una sorta di opera gnostica più che psicoanalitca, interessante è il fatto che proprio lì Jung elabora alcuni concetti che sono esattamente speculari a quelli del Buddismo tantrico-tibetano. Non si tratta di teorizzare chissà quale coincidenza metafisica; semmai di riscontrare che l’essere umano, partendo da presupposti molto differenti, può arrivare a considerazioni invece molto comuni per quanto riguarda la propria essenza e il rapporto di questa col resto dell’esistente.

Così come nel non-creato, nell’infinito, nell’imperscrutabilità del profondo universo che esiste – si suppone – oltre gli schemi temporali propri nostri (passato, presente e futuro), ogni differenza perde di valore perché sono alterate tutte le conoscenze microcosmiche e terrestri, proprio qui nel nostro mondo piccolo, eppure tanto grande, assume un particolare significato proprio la “differenziazione“: ogni essere vivente è pressoché unico e non assimilabile ad una indistinta categoria che lo sovraordini.

L’inconscio, così, diviene una matrice originaria che, tuttavia, è costantemente rinnovata e innovata dalle esperienze che il soggetto fa nel corso della sua vita. Scrive Jung: «La differenziazione è creazione, è l’essenza del mondo creato. […] L‘uomo stesso è divisore. […] Le qualità sono in noi differenziate le une dalle altre e non si annullano a vicenda». Questa legge naturale – o se vogliamo ipotesi di una legge dello sviluppo interiore naturale – è valida esclusivamente nell’essere del mondo, nell’esistente che noi siamo qui ed ora. Non può avere un valore nella proiezione universale.

Molto interessante è anche l’identificazione di Dio con tutto ciò che esiste: un panteismo che non evita il problema del senso dell’esistenza ma che non semplifica il tutto, evitando così la banalizzazione del rapporto tra un presunto creatore e l’altrettanto presunto creato. Ciò che caratterizza una distinguibilità in tal senso è, più della piramidale classica monoteistica posizione della divinità al di sopra di tutto e tutti (ne consegue il classico “timor di Dio“), la compresenza di Dio nel tempo, oltre la dimensione dell’extratemporalità che sembra riguardarlo.

L’essere supremo non è creatore e non ha creato, perché la creazione semplicemente non esiste. Ciò che è, non ha collocazione temporale. Non è nemmeno infinito. Così è e così non può non essere. Scopriamo in questo modo che la nostra parte inconscia è il punto più vicino al mistero del tutto che ci circonda e ci include. Non è la coscienza a poterci rivelare ciò che limitatamente possiamo sapere, ma l’incoscienza ad essere l’interprete dell’impenetrabile al di fuori di noi riflettendolo nell’imperscrutabile dentro noi.

Così, ecco che religione e filosofia non sono poi così lontane nella loro indagine sulla verità: la ricercano, a volte pensano di averla trovata, altre volte finiscono col contraddirsi in sé e tra sé stesse. Ciò di cui debbono essere consapevoli tanto i religiosi quanto i laici è che nessuno ha la possibilità di attribuire un senso all’esistente. Va vissuto al meglio, rispettandone l’evoluzione naturale e non sostituendoci a quel Dio che circa l’ottanta percento della popolazione mondiale sostiene che esista e in cui afferma di credere e in cui ripone la sua fede.

MARCO SFERINI

6 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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