Il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, reca Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Con le determinazioni assunte dalle competenti autorità, rende necessario un rinvio del referendum sul taglio dei parlamentari fissato al 29 marzo 2019.
L’art. 1, lett. c, del decreto elenca tra le misure consentite la «sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico». In tale elenco ricadono certamente anche le iniziative di campagna referendaria.
La norma è già applicata in Lombardia e Veneto, dove sono state cancellate o rinviate iniziative già fissate o in via di organizzazione. Altre regioni si stanno aggiungendo in queste ore. La regolarità di un voto trova la sua premessa indispensabile nella regolarità della campagna elettorale, essenziale per l’informazione di elettrici ed elettori. Tale obiettivo viene qui vanificato dall’atto dell’autorità fondato sul decreto-legge. Nelle prime due regioni interessate risiedono circa 12 milioni di aventi diritto al voto, quasi un quarto del totale in Italia. Con le altre molti milioni ancora entreranno in una bolla di silenzio. Quindi, la campagna elettorale allo stato si mostra già compromessa, ex lege. Questo anche senza considerare la possibilità che i divieti in futuro giungano a condizionare persino le operazioni di voto. Quid juris, ad esempio, per chi si trovasse – ancorché sano – bloccato in una zona rossa di quarantena essendo residente e iscritto nelle liste elettorali altrove? È improbabile che l’emergenza si chiuda nel tempo breve che ci separa dalle urne. E se anche venisse meno ogni divieto formale, la paura comunque peserebbe sulla campagna e sul voto.
La data del 29 marzo dovrebbe dunque essere posposta al momento in cui l’emergenza potesse considerarsi effettivamente superata. La Corte di Cassazione ha dato disco verde al referendum il 23 gennaio 2020. In base all’art. 15 della legge 352/1970, da quella data il governo aveva a disposizione 60 giorni per indire il referendum. L’ha indetto subito, con d.p.r. del 28 gennaio, per ridurre al minimo i tempi di un percorso elettorale avvertito come problematico per l’esecutivo. La data del voto poteva essere stabilita tra il 50mo e il 70mo giorno a partire dal 28 gennaio. È stata fissata intorno al 60mo giorno, il 29 marzo.
Sulla base della legge 352/1970, un rinvio potrebbe forse anche essere immediatamente disposto oggi. Ma sarebbe limitato a pochi giorni, rimanendo contenuto nella forchetta tra i 50 e 70 giorni prima citata. Nella situazione data, un rinvio molto probabilmente inutile.
Andrebbe dunque considerata l’adozione di un decreto-legge in deroga all’art. 15 della legge 352/1970. Tale decreto, toccando solo la data, non troverebbe ostacolo nell’art. 72 della Costituzione, e sarebbe certo giustificato ai sensi dell’art. 77 per la situazione di straordinaria necessità ed urgenza.
Nella sinistra sparsa si teme che un rinvio favorisca la confluenza in un unico election day del voto referendario e di quello regionale e amministrativo di fine maggio. Secondo una lettura, questo sarebbe uno svantaggio, perché favorirebbe la partecipazione. Il «No» sarebbe invece favorito da una bassa partecipazione al voto, rilevante per la mancanza di un quorum strutturale per il referendum costituzionale. Ma davvero pensiamo che basti? Siamo sicuri che valga ancora l’antico mantra per cui la sinistra votava in massa, la destra no? I fan dell’antipolitica e i pasdaran dell’anticasta andranno a votare comunque. Il «No» avrà una chance se saprà far passare le sue buone ragioni tra chi vota Pd, destra e anche M5S, affinché si scelga il «No» o il non voto in modo consapevole e non occasionale.
Il diritto alla partecipazione democratica e quello di voto devono essere in ogni occasione protetti e garantiti, perché in essi riposa l’essenza della democrazia e della Costituzione. È triste e inaccettabile sentir definire grande vittoria l’esito delle suppletive di Napoli, quando sono andati a votare 34.000 aventi diritto su 357.000. Fa piacere l’elezione al Senato di Sandro Ruotolo. Ma la sinistra non riconquisterà il Paese scommettendo che gli altri vadano in massa al mare.
MASSIMO VILLONE
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