Nel «decreto rilancio» sarà eliminato l’acconto Irap di giugno per due milioni di imprese con fatturato fino a 250 milioni di euro, facendo guadagnare chi ha già guadagnato nella crisi. Lo stop chiesto da Carlo Bonomi di Confindustria e concesso dal governo alle imprese sarà di 4 miliardi, mediamente almeno 2 mila euro a testa. Insieme all’addizionale regionale all’Irpef e la compartecipazione all’Iva, l’Irap serve a finanziare la sanità. Il governo ieri ha detto che stanzierà 3 miliardi 250 milioni, in particolare per la medicina territoriale, l’assunzione di 9600 infermieri e 4200 borse di studio. Una cifra che, a questo punto, dovrebbe essere considerata un saldo, non un finanziamento aggiuntivo a un settore che dovrebbe ricevere più risorse dopo la pandemia.
È stato previsto lo stanziamento di meno di un miliardo di euro per il «reddito di emergenza» (Rem) a un milione di famiglie. A inizio aprile si era partiti da tre miliardi per la stessa platea. Allora fu ipotizzato un sussidio di tre mesi da 500 euro in media. Poi è stato ridotto a una doppia tranche tra 400 e 800 euro. Ora 800 euro in due tranche in base al nucleo familiare.
Saranno esclusi i percettori di reddito di cittadinanza, i pensionati e chi ha un lavoro da cui guadagna una cifra superiore a questi importi. Tranne i lavoratori dello spettacolo, a cui ieri è stato promesso un bonus da 600 euro per marzo e aprile, potrebbero essere molti i precari ad essere esclusi anche da questo bonus. Quello che doveva essere un «reddito universale» (Nicola Zingaretti, Pd) è un obolo per i poverissimi. In compenso chi percepisce il cosiddetto «reddito di cittadinanza» potrà lavorare nei campi, senza perderlo, a condizione che non guadagni più di duemila euro in due mesi. Almeno ieri era svanita l’annunciata estensione di questo «reddito» e la possibilità di chiedere l’integrazione dell’importo esistente.
Nel decreto è stata respinta l’estensione strutturale e senza vincoli del cosiddetto «reddito di cittadinanza» fatta dal Basic Income Network Italia e dalla campagna per il «reddito di quarantena». Non sono stati nemmeno ascoltati il Forum Disuguaglianze e Diversità e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) che avevano chiesto una misura che non «risparmiasse» sui poveri e fosse più dignitosa di uno spot. È entrambe le cose. Sarà inoltre finanziato un fondo per l’indigenza con 250 milioni. In una visione pauperistica e non emancipativa dall’esclusione queste misure temporanee sono una goccia nel maremoto della crisi sociale in cui ci troviamo.
All’idea di un Welfare a pezzi è ispirata anche l’indennità Inps da 500 euro per aprile e maggio per i lavoratori domestici con contratti di lavoro superiori a 10 ore settimanali, a condizione che non vivano con il datore di lavoro. Terminati i 460 milioni a disposizione, il bonus terminerà.
Le stesse contraddizioni emerse in un Welfare ispirato a una visione categoriale della società sono presenti nei provvedimenti sul lavoro autonomo. Le partite Iva che ricevono già i 600 euro di bonus, rinnovati dal «decreto rilancio» fino a giugno, sarebbero state escluse dal beneficio degli indennizzi a fondo perduto per le imprese fino a 5 milioni di fatturato. In molti casi sono anche titolari di micro-imprese o studi professionali. Per i redditi fino a 50 mila euro potranno beneficiare di un bonus di mille euro, ma solo se avranno perso almeno il 33% del fatturato. Chi guadagna fino a 35 mila euro, la maggioranza degli autonomi-lavoratori proletarizzati, dovrà accontentarsi di 600 euro. Nelle bozze di ieri non era previsto l’aumento del bonus a 800 euro annunciato in queste settimane. Chi guadagna di più, avrà un bonus superiore. Chi guadagna meno, uno inferiore.
In uno stato sociale, dovrebbe essere l’opposto. È la logica classista del Welfare dell’emergenza: le sue misure a pioggia potrebbero avere l’effetto di una pioggia d’estate. Dopo l’acquazzone, lascia un deserto.
Le casse integrazioni saranno inoltre rinnovate per 14 settimane, dal 23 febbraio al 31 agosto e per quattro settimane dal primo settembre al 31 ottobre 2020. È stato raggiunto un accordo tra le regioni e il governo sulla cassa integrazione in deroga. Sarà anticipata dall’Inps per il 40% dell’importo, non più dalle Regioni. La decisione riguarda la Cassa integrazione ordinaria, l’assegno ordinario erogato dal Fis, il Fondo di integrazione salariale, ma sarà applicata dall’entrata in vigore del decreto. Non è chiaro cosa accadrà alle richieste già effettuate, ma non ancora erogate. Invece di prospettare la riforma di un ammortizzatore sociale unico al 100% del salario, Conte ha detto che le «casse» rispondono agli interessi delle imprese.
ROBERTO CICCARELLI