La rituale campagna classista contro il «reddito di cittadinanza», accusato di essere la causa del rifiuto da parte degli stagionali del turismo e della ristorazione di farsi sfruttare a pochi euro, è senza fondamento. Il «reddito di cittadinanza» c’entra poco o nulla. La stragrande maggioranza degli stagionali è destinataria dei bonus prorogati dagli ultimi due governi e potrebbe usufruire di ammortizzatori sociali la cui durata è stata dimezzata dal Jobs Act di Renzi.
L’intento della campagna è politico: stigmatizzare i precari trattandoli da lazzaroni con la teoria del «divano»; mantenere i lavoratori in una condizione di ricattabilità in un’economia fatta da piccoli capitalisti straccioni; annientare le tutele residuali e i sussidi straordinari stanziati in maniera temporanea durante la pandemia; invitare il governo a non essere troppo garantista nell’annunciata riforma «tendenzialmente universalistica» degli ammortizzatori sociali. Non è escluso che si voglia condizionare la riforma delle «politiche attive del lavoro» legate al «reddito di cittadinanza». A dire del ministro del lavoro Andrea Orlando questo nesso sarà rilanciato. Del resto questo è il reale contenuto della misura istituita dal «Conte 1» nel 2019.
Per capire il significato di questo dibattito si possono leggere gli emendamenti al «decreto sostegni bis». Il Pd vuole stanziare 30 milioni di euro per i centri per l’impiego, Forza Italia chiede la decontribuzione per le imprese che assumono a termine chi è in cassa integrazione o ha il «reddito di emergenza» o quello di cittadinanza, Fratelli d’Italia chiede la formazione obbligatoria (già prevista dalla legge, ma inapplicata), la Lega vuole tagliare i fondi del 10%.
L’emendamento più significativo è dei Cinque Stelle che vogliono obbligare i percettori del «reddito» a accettare, pena la decadenza del beneficio, offerte di lavoro stagionali entro 100 chilometri dalla residenza. L’idea è sospendere la fruizione del beneficio e integrare il compenso mensile con il supporto dell’Inps nel caso in cui sia inferiore al «reddito».
Si cerca così di spingere, in maniera coercitiva, chi svolgeva lavori stagionali ad accettare «contratti di lavoro stagionali a condizioni retributive congrue, conformi ai contratti collettivi nazionali del settore di riferimento». Visto che l’importo medio del «reddito» è in media di poco superiore ai 500 euro mensili, il beneficiario del «reddito» percepirebbe una cifra di poco superiore. Finita la stagione, tornerebbe a percepire il sussidio. In questo modo non uscirebbe dalla povertà e sarebbe usato come parte di un esercito di manodopera di riserva.
Tra gli analisti del «Workfare» questa si chiama «trappola della povertà» ed è il prodotto dei sistemi che si vogliono realizzare in Italia con il piano «di ripresa e resilienza».
L’emendamento M5S assomiglia alla una misura del «decreto rilancio» del 2020. In quel caso i beneficiari del «reddito» potevano stipulare, per il solo settore agricolo, contratti a termine non superiori a 30 giorni, rinnovabili per un altro mese, senza subire riduzioni del sussidio, a condizione che non avessero guadagnato più di duemila euro.
La proposta di quest’anno sembra un’estensione della precedente con l’aggiunta della perdita del sussidio in caso di rifiuto. La legge sul «reddito di cittadinanza» prevede un caso simile se il beneficiario rifiuta di trasferirsi per svolgere un lavoro a tempo pieno a 50, 250 o oltre 500 km da casa. Nel caso dell’emendamento si perderebbe il beneficio anche nel caso di rifiuto di un lavoro stagionale a 100 km.
Gli attacchi infondati contro chi non vuole lavorare perché percepisce il reddito o la cassa integrazione servono a irrigidire le tecniche punitive contro chi ha poche tutele e nessuna garanzia per condurre una vita dignitosa. Qualunque sarà l’esito di queste proposte la politica discute su come governare i precari, non su come liberarli dalla povertà.
ROBERTO CICCARELLI
Foto di Ben Kerckx da Pixabay