Razionale e irrazionale dalla furia di Orlando all’Universo

«Fu allora per uscir del sentimento / sì tutto il preda del dolor si lassa». Così Ludovico Ariosto descrive il passaggio dalla contezza all’uscita di senno da parte del...

«Fu allora per uscir del sentimento / sì tutto il preda del dolor si lassa». Così Ludovico Ariosto descrive il passaggio dalla contezza all’uscita di senno da parte del prode Orlando. Vagando in una selva dove, sui tronchi degli alberi, vede incisi i nomi di Angelica e Medoro, leggendo addirittura una composizione poetica scritta da quest’ultimo per l’amara principessa, la rettitudine indefessa del cavaliere lascia il passo alla follia perché «l’impetuosa doglia entro rimase / che volea tutta uscir con troppa fretta».

Si nota, nella dipintura dei tratti di questa bramosia che sfocia nella gelosia più completa e, quindi, nella tracotante alterazione dei sensi e delle emozioni, la presa in consegna da parte del poeta di un tema piuttosto complesso: quello della condivisione della realtà come dato di fatto in relazione ai nostri sentimenti e, quindi, della piena aderenza tra oggettività e soggettività della stessa. Nel momento in cui Orlando impazzisce, non solamente lui, ma tutto intorno gli diventa alieno rispetto a prima.

Non soltanto dimentica di sé stesso: chi è, cosa sta facendo, perché soffre e si bestializza in un certo qual modo. Ma muta radicalmente ogni riferimento precedente proprio con la realtà. Possiamo dire di essere certi di conoscere la realtà e di averne – questo è il punto – dato l’unica interpretazione oggettiva possibile? In sostanza: possiamo affermare di “riconoscere” ciò che ci circonda e di essere certi che ciò che affermiamo è anche ciò che è? Basta un briciolo di pazzia, un’uscita di senno per far cambiare qualcosa di più di un punto di vista: per farci vedere l’opposto o il molto differente rispetto a prima.

Il mondo, la vita, l’essere in questo presente che continuamente muta, ci appaiono come qualcosa di ragionevole fino a che non ci eleviamo, col pensiero e con lo sguardo introspettivo rivolto all’esterno, ad altezze metafisiche che sovrastano la mera materialità delle cose. Nell’attimo in cui ci proiettiamo nell’Universo, la finitudine e la piccolezza umana si disvelano in relazione alle sideralità del cosmo, all’imprendibile significato del tutto, al mistero eterno dell’esistenza.

La riconoscibilità delle cose, delle persone, di quello che ci è giornalmente limitrofo, ci permette di avere una reciprocità in questo versante che è conferma di ciò che anche noi siamo. Un minimo senso comune lo ritroviamo, dunque, nel confrontarci con i nostri simili e pure con i nostri dissimili. Facendo parte di questo pianeta, siamo naturalmente compresi in quello che potremmo chiamare un “ordine“, una disposizione dunque naturale.

La poetica dell’Ariosto depotenzia il mito del mondo certo e definito; sembra quasi volerlo metaforizzare, visto che, a seconda dei mutamenti del nostro animo (della nostra psiche, quindi), ciò che ci sta intorno può assumere connotati completamente differenti rispetto alle certezze che abbiamo avuto da sempre, poggianti su categorizzazioni ereditate dall’esperienza che, a sua volta, è sinonimo di un tradizionalismo incluso in una cultura di massa che è, in questo senso, una importante parte di quel costrutto sociale e singolare che prende il nome di “identità“.

Orlando impazzisce e perde proprio la sua identità, la sua connessione intrinseca con quello che prima considerava la realtà; quella che noi, un po’ troppo semplicisticamente, potremmo giurare e stragiurare di conoscere senza se e senza ma, convinti di ciò da una ontologica “oggettività” dei fatti. Quel che vedo, dunque, è quello che è. Abbiamo, nel corso dei millenni, creato delle chiavi interpretative dell’esistente e abbiamo formulato dei codici, che si rivelano nello sviluppo del linguaggio, dell’attribuzione di un nome ad ogni cosa, oltre che a noi stessi.

Lo abbiamo fatto per condividere il mondo fra noi simili, spesso senza riflettere molto sul fatto che ciò che chiamiamo “pietra” è, a prescindere da come la appelliamo, un qualcosa che di per sé non ha nessun nome, nessun epiteto, niente di niente se non la propria materialità priva di vita. Ma esistente. La capacità di astrazione, tipica del nostro metodo interpretativo, ha quindi fatto del mondo un mondo tutto nostro, in cui noi sappiamo come muoverci e che riconosciamo perché ne abbiamo concettualizzato ogni singolarissimo aspetto.

Se noi, per un secondo, fossimo degli esseri privi di capacità critica, di tendenza dialettica, di voglia, quindi, di conoscere mediante il raffronto tra gli opposti e l’indagine tanto nel sempre più minuscolo anfratto dell’essere quanto nel maggiore spazio esponenziale dell’Universo e del titanicamente immenso grande, non avremmo nemmeno la possibilità di interrogarci, di porci domande, di avere dubbi, di coltivare certezze. Osserveremmo naturalmente l’essere dell’esistente.

Lo faremmo, probabilmente, come lo fanno gli animali non umani che, differentemente da noi animali umani, utilizzano naturalmente l’istinto e non colgono nessuna metaforizzazione del mondo, ma vi si accostano in ogni istante con una perfetta aderenza inclusiva e non con un distacco sospettoso, con la formulazione senza soluzione di continuità di un gigantesco punto interrogativo che ci pesa sulla groppa e ci condanna alla ricerca del significato, del senso della vita. Nostra e dell’esistenza in quanto tale.

Ma, probabilmente, l’antropocentrizzazione concettuale dell’essere del mondo, inteso come pianeta Terra, noi l’abbiamo presa in prestito per tentare anche di idealizzare ciò che non ha bisogno di essere incasellato in queste settorialità peraltro impossibili da rendere gnoseologicamente. Teorizzare anche soltanto una possibile conoscenza piena dell’Universo può spettare alla scienza ma non certamente alle scuole filosofiche. Proprio la mutevolezza del nostro rapporto con l’esistente dovrebbe essere lo spunto primo per intuire che ciò che noi chiamiamo così prescinde da noi stessi.

Ci include in quanto parte della materia che, nel nostro caso, si è evoluta al punto da divenire tanto intelligente da essere cosciente e consapevole di sé medesima; ma l’Universo è tutto intorno a noi e noi in lui senza aver alcun bisogno della nostra interpretazione. L’esistenza della vita, di altre civiltà su pianeti tanto distanti da noi da impedire la condivisione delle esperienze, avrà determinato condizioni tali da esprimere categorizzazioni simili a quelle dell’umanità terrestre.

Quello che noi reputiamo un ordine intrascendibile è una nostra creazione: là dove noi vediamo la luce nel cosmo, in realtà vi è solamente buio. Dove immaginiamo, grazie ai film di fantascienza, che si odano grandi esplosioni, rombi di missili, collisioni catastrofiche che terminano in deflagrazioni assordanti, c’è solo silenzio perché le onde sonore non si propagano nello spazio (forse) infinito.

Se usciamo anche noi di senno come Orlando, ma per altri motivi, per oltrepessare i confini della nostra mente, per andare al di là dei princìpi che ci siamo dati e degli schemi che abbiamo creato, allora la ricerca del senso dell’esistenza diviene più leggera. La pesantezza di questo compito, per tentare di sopportare meglio la vita di ogni giorno, magari sperando in una compensazione ultraterrena e post mortem, è propriamente vincolata all’insufficienza delle categorie attraverso cui tentiamo di sapere, di scavalcare un dubbio con un dubbio ulteriore, di una certezza con una nuova certezza.

E se l’esistente fosse una grande metafora di sé stesso e ci restituisse una immagine del tutto che intende corrispondere parzialmente alle nostre aspettative? Si dovrebbe desumerne che vi è un piano dietro, magari di qualche “creatore“, di qualche entità che sovrintende o si identifica con l’essere. Qui diverrebbe, per antonomasia, l’Essere con la e maiuscola. La sensazione, nell’affrontare l’indefinito e l’indefinibile, è simultaneamente quella di avventurarsi nell’ignoto come di stare, al tempo stesso, vagando in una terra certamente sconosciuta ma comunque esplorabile.

Il poema dell’Ariosto è, da questo punto di vista, un’opera fondata sulla “furia” di Orlando, su un sentimento amoroso tutto da scoprire. Quindi, un po’ estendendo i concetti, potremmo affermare che, al netto del sentimento del paladino, così forte e anche straziante, il mondo ariostesco è dominato da forze irrazionali ed è fantastico nel senso più iperuranico del termine.

Se riteniamo l’amore una forza classicamente estranea alla ragione, visto che il cuore conosce ragioni che la mente non conosce (per dirla con una battuta un po’ scontata ma efficace), allora abbiamo individuato una di queste tensioni prime nella grande opera trentennale del poeta.

Nel mondo terrestre in cui siamo, in un Universo misterioso e destinato a rimanere tale, l’amore, come i sentimenti che gli sono uguali e contrari, è una estensione davvero straordinaria dell’evoluzione materiale ed è proprio della sensibilità, dell’essere e non semplicemente dell’esistere. Quindi trascende la semplice ontologia e non è nemmeno comprendibile entro i termini di una sorta di astrazione metafisica. I sentimenti sono una parte essenziale del nostro io e del nostro essere comune, dell’interattività sociale.

Quindi la complessità dell’animalità, umana e non, è anzitutto la furia delle passione e, perché no, anche la pazzia che ne può derivare. Perché la sregolatezza è genialità a volte, ed è una conquista che si ottiene quando si è arrivati al limite del conoscibile e dell’interpretabile. In questo, diceva Carmelo Bene, Nietzsche si è meritato la sua follia, se l’è proprio sudata. Il raffronto tra piccolezza umana e grandezza del resto da noi stessi è il punto di svolta di una decisione che dobbiamo prendere: abbandonarci al delirio della ricerca di un senso esistenziale oppure convenire che un senso non esiste.

Qui l’amore, il trasporto passionale è salvifico fino ad un certo punto. Scrive Ariosto: «Quanto più [Orlando] cerca ritrovar quiete / tanto ritrova più travaglio e pena». Il dondolio dei sentimenti che circolano nella mente del prode ferito interiormente è molto comune ad ogni essere umano: l’alternanza ci sembra un crudele gioco di emozioni ma, in verità, è un dualismo che ci nutre continuamente e ci fa crescere sul piano della sopportabilità dell’esistente.

La vita monocolore, monotona (intesa proprio come tono sempre uguale a sé stesso) è di per sé una apatia che nega quella complessità materiale che noi siamo: quella empatia che sembra così strano faccia parte di ciò che dall’unicellularismo si è evoluto sino a diventare coscienza ed autocoscienza di sé stessi e di ciò che ci circonda. La fragilità del nostro essere, fisicamente destinata alla decadenza progressiva, si ritrova anche nell’animo che, forse ben prima del corpo, comprende che la sua giovanilità è destinata a fare i conto con la cruda realtà quotidiana.

Dubbi e tribolazioni oltrepassano quindi la fisicità e sono propri dell’angoscia interiore che, tuttavia, può essere allontanata se ci si dà degli obiettivi concreti e se ci si limita al considerarsi parte di questo micromondo che, pure, è tanto grande rispetto alle nostre dimensioni. Qui i rapporti si capovolgono: la piccolezza strutturale dell’essere vivente autocosciente è inversamente proporzionale alle potenzialità della sua mente. La follia di Orlando non è cieca pazzia, come lascerebbe ingannevolmente intendere quel “fuorioso” nel titolo dell’opera.

Semmai è pazzia insana solo per amore e, alla fine, è rinsavimento, ritorno alla consapevolezza che, nel sacrificare l’estremità delle emozioni, si inserisce nuovamente nel perimetro un po’ asfittico del quotidiano, dell’oggi come del domani. Ma ogni sensazione vissuta, anche la più tortuosa e spiacevole, è un arricchimento interiore che dà alla nostra complessità strutturale un valore aggiunto che ha, come l’infinito dell’Universo, un carattere indomito di imprendibilità. Ci sfuggirà di continuo e noi, continuamente, lo inseguiremo. Proprio come l’amore.

MARCO SFERINI

16 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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