Quando il 20 aprile 2005, il giorno dopo l’elezione a pontefice del cardinal Ratzinger, il manifesto pubblica una prima pagina che fa il giro del mondo («Il pastore tedesco»), molti gridano allo scandalo, senza comprendere il vero significato di quel titolo: colui che per 25 anni è stato il «guardiano della fede» alla guida della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) è diventato papa.
12 febbraio 2013, altra prima pagina, «Stasera esco»: Benedetto XVI si è dimesso (il giorno prima), realizzando nei fatti la più grande riforma del papato degli ultimi secoli, destinata, forse, a diventare prassi ricorrente, come ha già lasciato intendere Bergoglio.
Sono questi i due momenti centrali della vita e del ministero di Joseph Ratzinger. Ci sono però anche un prima, molto lungo, e un dopo, più breve ma non meno significativo.
Nato il 16 aprile 1927 a Marktl, in Baviera, nel 1951 viene ordinato prete, inizia a insegnare teologia, prima a Frisinga, poi a Bonn, Münster, Tubinga (dove è collega del teologo “eretico” Hans Küng) e Ratisbona. Partecipa al Concilio Vaticano II come perito (esperto), collaborando con l’arcivescovo di Colonia Frings, esponente della corrente progressista, da cui Ratzinger si allontanerà presto.
Nel 1977 Paolo VI lo nomina arcivescovo di Monaco e lo crea cardinale. Nel 1981 papa Wojtyła lo chiama a Roma alla guida della Cdf, l’ex sant’Uffizio. Ratzinger assolve l’incarico con rigore, difendendo la Chiesa romana da ogni spiffero di modernità e spazzando via la polvere progressista che era riuscita a penetrare all’interno negli anni agitati del post Concilio, con provvedimenti disciplinari che colpiscono prima i teologi della liberazione latinoamericani e poi tutti gli altri.
Il centralismo romano viene rafforzato indebolendo l’autonomia delle conferenze episcopali. Il dialogo interreligioso e l’ecumenismo azzoppati, affermando che non ci sono vie di salvezza nelle altre religioni e nelle chiese cristiane diverse da quella cattolica romana (dichiarazione Dominus Iesus, anno 2000). L’attività politica subordinata alle direttive ecclesiastiche, con la codificazione dei «principi non negoziabili».
Nell’aprile 2005 Wojtyla muore dopo una lunga malattia, Ratzinger è il successore quasi naturale (superando agilmente Bergoglio, il secondo più votato). L’immagine che il nuovo papa Benedetto XVI ha della Chiesa è quella di «una barca che sta per affondare», travolta dalla tempesta del relativismo, figlio della modernità. Per salvarla bisogna tornare al passato, al pre-Concilio (e al pre ‘68), anzi al Concilio interpretato secondo «l’ermeneutica della continuità», incanalandolo sui sicuri binari della tradizione.
I primi passi del pontificato sono incerti. Prima le frizioni con il mondo ebraico: ad Auschwitz (2006) autoassolve il popolo tedesco e la Chiesa cattolica, ingannati dai «potentati del terzo Reich»; revoca la scomunica al vescovo lefebvriano Williamson, che nega la Shoah; ripropone l’antica preghiera del venerdì santo per la conversione degli ebrei. Poi la frattura con il mondo musulmano – precipitosamente ricomposta –, quando a Ratisbona (2006), citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, attribuisce all’islam malvagità e disumanità. Viene invece applicato con coerenza il recupero della tradizione preconciliare, dall’uso di abiti, paramenti liturgici e oggetti, al ripristino del rito tridentino (messa in latino, con il celebrante che rivolge le spalle al popolo), salutato con entusiasmo dai tradizionalisti.
Esplodono gli scandali: i “corvi” in Vaticano e i vatileaks rendono evidente la guerra tra bande che si combatte nella curia romana, le finanze, la pedofilia del clero, su cui Benedetto XVI inizia a intervenire con maggior fermezza rispetto al proprio predecessore Giovanni Paolo II ma anche rispetto a se stesso quando era arcivescovo di Monaco (avrebbe ignorato alcuni abusi commessi in diocesi, come emerso negli ultimi mesi) e quando guidava la Cdf (intransigente con i teologi progressisti, poco attento ai preti pedofili).
Si rende conto di non riuscire a guidare la barca di Pietro secondo la propria linea di governo, e così nel febbraio 2013 si dimette e lascia il pontificato. Da papa emerito – un inedito nella storia della Chiesa – sceglie il silenzio ma resta comunque in Vaticano, trasformandosi, spesso involontariamente e talvolta assecondando l’operazione, nel punto di riferimento dei conservatori che si oppongono a papa Francesco. E che ora sono rimasti orfani di un leader che ha avuto un ruolo centrale nella Chiesa dell’ultimo quarantennio.
LUCA KOCCI
da il manifesto.it
Foto di Maximilian K