Raid e disillusione, il Libano pronto al peggio

L’odissea degli sfollati in fuga dal sud. Il numero dei morti è salito a 569, tra cui 50 minori. Hezbollah risponde con 300 missili. Le ambasciate invitano a lasciare il Paese, ma solo la compagnia di bandiera vola ancora da Beirut

«Siamo tutti volontari, non abbiamo nessuna ong o organizzazione alle spalle. Raccogliamo acqua, succhi di frutta, pane, biscotti… insomma tutto quello che la gente spontaneamente porta. Ci siamo organizzati da soli, abbiamo dei gruppi whatsapp di coordinamento» racconta Hana, con un sorriso accogliente. Ha vent’anni, come la maggior parte dei ragazzi che vanno e vangono dal Lycée Abdel Kader, a Zuqaq al Blat, quartiere a prevalenza sciita della capitale.

La loro allegria bilancia per qualche istante la catastrofe che accade tutto intorno. Nei piani superiori della scuola ci sono famiglie intere che sono scappate lasciandosi alle spalle una vita intera, senza avere avuto nemmeno la possibilità di riempire una valigia: «Siamo partiti all’improvviso, non abbiamo portato niente, neanche uno spazzolino o un asciugamani con noi» racconta Fatima, tra le voci squillanti dei tanti bambini che giocano.

Migliaia di persone in fuga dal sud del Libano si sono riversate a Beirut principalmente e in altre città più sicure. La scena più rappresentativa del panico è forse quella dell’unica autostrada che dal sud porta a Beirut, occupata in entrambe le carreggiate in direzione nord lunedì. Shadi Jammal è invece della protezione civile, ma è da solo, senza una squadra e organizza i primi aiuti in una scuola media poco distante: «Non c’è ancora nessuno a coordinare le operazioni, ma la gente del quartiere sta portando di tutto». Altri punti di ritrovo hanno invece un’organizzazione più strutturata: croce rossa libanese, municipalità, protezione civile, ong locali e internazionali hanno già messo in moto la macchina del soccorso e stanno implementando le operazioni.

L’esercito israeliano ha bombardato senza posa anche ieri il Libano del sud e quello dell’est, dove la presenza sciita è più massiccia. Il bilancio provvisorio dei morti negli attacchi di ieri e di lunedì è salito a 569, tra cui 50 bambini, mentre quello dei feriti è di 1835.

«Continueremo a colpire Hezbollah. E dico al popolo libanese: la nostra guerra non è contro di voi, la nostra guerra è contro Hezbollah» ha detto Netanyahu in un video registrato ieri nel suo ufficio. I morti e i feriti di questi due giorni di attacchi sono però in larghissima parte civili. Le armi di precisione di cui Israele è fornito non vengono utilizzate che in rare occasioni, mentre Israele ha dato prova proprio in questa settimana di avere una conoscenza capillare di Hezbollah, dei membri, dei loro spostamenti e delle loro posizioni in alcuni casi.

Anche la periferia a sud di Beirut è stata colpita, alle tre locali di ieri. Le ambulanze sono arrivate a sirene spiegate per il secondo giorno consecutivo. «Ibrahim Mohammad Kobeissy, comandante della forza di missili e razzi di Hezbollah, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano» ha subito rivendicato l’esercito israeliano su X. Assieme a lui altre sei persone hanno perso la vita, e quindici sono state ferite, ma non si sa se siano civili o membri del gruppo.

Alle 7 di ieri sera una nuova ondata di bombardamenti israeliani su Aramta, Bint Jbeil, Qabrikha, Tebnine, Soultaniyeh, Doueir, Kfarsir, Bayada e Braachit a sud, mentre nella Beka’a, a est del paese, c’è stato un raid violentissimo su Duris, nei pressi di Ba’albek.

Hezbollah ha poi fatto sapere di aver tirato 50 razzi sulla base di Dado, opposta a Bint Jbeil. Oltre 300 i missili lanciati dalla milizia-partito ieri, un record dall’inizio del conflitto – l’8 ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas in Israele -, come ha sottolineato il quotidiano israeliano Haaretz.

Si teme che questa operazione aerea sia il preludio di un’invasione terrestre, anche se l’esercito israeliano correrebbe il rischio, proprio come accaduto nella guerra del Tammus del 2006, di rimanere impantanato in una battaglia campale che sarebbe certamente più insidiosa di quella di adesso.

Ieri all’assemblea generale delle Nazioni unite l’ambasciatore israeliano all’Onu Danny Danon ha dichiarato: «In questo stesso momento delle forze importanti provano a proporre idee e noi siamo aperti. Non abbiamo alcun desiderio di lanciare un’invasione terrestre. Preferiamo una soluzione diplomatica».

La diplomazia prova a sedare la guerra, con scarsi risultati fino a questo momento. Il premier canadese Trudeau ha fatto un appello per una de-escalation tra Israele e Hezbollah, aggiungendo che il massacro di donne e bambini in Libano è preoccupante: «Dobbiamo assicurarci che i civili vengano protetti. La violenza deve cessare». Biden insiste nella retorica di una guerra, quella cominciata il 7 ottobre, non voluta da Israele e nel diritto alla difesa di questi. «I valori dell’occidente muoiono a Gaza» ha tuonato il presidente turco Erdogan.

In Libano sono giorni di grande tensione, preoccupazione, incertezza. Le scuole rimarranno chiuse almeno per tutta questa settimana. Moltissime compagnie aeree hanno cancellato i voli in entrata e uscita e restano solo quelli della compagnia di bandiera libanese a prezzi proibitivi. I posti per questa settimana sono in ogni caso esauriti. Le ambasciate invitano a lasciare il paese.

Molte Ong rimpatriano i lavoratori stranieri e limitano i movimenti a quelli strettamente necessari. Molti libanesi della capitale, quelli che possono permetterselo, si sono allontanati da Beirut in zone più tranquille. E tutti aspettano il peggio con grande disillusione.

PASQUALE PORCIELLO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv

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