Peggio di così non poteva finire: con il centrosinistra diviso e avvelenato, la destra compatta e il nuovo cda Rai pronto a dare un’ulteriore stretta a tele-Meloni, con l’arrivo al timone del meloniano Giampaolo Rossi. Ad agosto le opposizioni unite avevano provato a mettere in difficoltà la destre: niente nomina del cda Rai senza una riforma del servizio pubblico che recepisca le indicazioni del Media freedom Act europeo.
Una barricata che ha tenuto fino a un paio di settimane fa, quando era stata la destra a imporre un rinvio per le proprie divisioni interne. Negli ultimi giorni il fronte di centrosinistra si è sgretolato, con Conte che per primo si è detto disponibile a procedere alle nomine: e così ieri M5S e Avs hanno partecipato alle votazioni sui 4 membri del cda di nomina parlamentare, ottenendone due (la conferma di Alessandro di Majo per i 5S, per i rossoverdi entra l’ex Fnsi Roberto Natale), mentre il Pd, con Azione e Iv, ha confermato la linea dura.
Per la destra bottino pieno: ha eletto l’ex direttore di Rai2 Antonio Marano (quota Lega) e Federica Frangi (già a Porta a porta e poi un passaggio nell’ufficio stampa di Fdi). Mentre il ministero dell’Economia ha completato la squadra con le due nomine più pesanti: Gianpaolo Rossi, amministratore delegato in pectore e Simona Agnes, designata in quota Fi come presidente della tv pubblica ma ancora sub iudice, visto che deve ottenere il voto dei due terzi della commissione di Vigilanza. Fi Italia sta lavorando per trovarle i voti, per palazzo Chigi non c’è particolare fretta: se non li troverà il presidente ad interim sarà il più anziano, e cioè Marano, e così anche Salvini avrà ottenuto qualcosa (anche se dalla Lega arriva un pizzino a Meloni: «La riforma Rai è più che mai necessaria»).
Per ora il dramma è tutto a sinistra. Per il Pd non c’è solo la solita inaffidabilità di Conte (sui temi Rai più frequente del solito), ma anche lo strappo con i cugini di Avs. «Noi siamo stati coerenti. Chiedete agli altri», il gelido commento di Schlein, che perde il suo abituale aplomb con gli alleati (gelo ieri in Cassazione dove sono andati tutti a depositare le firme contro l’autonomia). «Rimaniamo dell’idea che sia sbagliato rinnovare un cda che sostanzialmente è già fuorilegge, visto che il Freedom Act è già in vigore e questa governance andrà cambiata liberando la Rai dai partiti».
Replica Conte: «Non capisco la decisione del Pd. Il cda deve essere presidiato dalle forze di opposizione. La spaccatura c’è stata da parte del Pd insieme a Renzi». E ancora: «Il cda non è una poltrona, sono posizioni di controllo. Chi fa l’Aventino lo deve fare per le direzioni e le testate, quindi ci aspettiamo un Pd conseguente, dopo decenni di segno diverso che sin qui ha dato alla Rai». Fratoianni ritiene che, ottenuta dalle opposizioni la calendarizzazione in Parlamento delle proposte di riforma della Rai (per l’inizio di ottobre, ndr) , non avesse senso l’Aventino sul cda. «A questo punto la destra non potrà rinviare la riforma sine die», insiste il leader di Sinistra italiana. Che conferma il voto contro Agnes in Vigilanza.
Al Nazareno masticano amaro: i contatti con Avs sono stati intensissimi negli ultimi giorni, ma non hanno dato risultati. «Era l’occasione perfetta per mettere la destra in difficoltà, per rappresentare plasticamente il colpo di mano sulla tv pubblica», ragionano fonti dem. «Le opposizioni unite contro Tele-Meloni avrebbero pesato molto di più, anche mediaticamente, che avere un consigliere di amministrazione…».
Tra le opposizioni il clima di sospetto regna sovrano . I dem aspettano il voto su Agnes per vedere se Conte «si è venduto davvero». Ma la cartina di tornasole vera arriverà solo con le nomine nei tg: se dopo decenni il Tg3 dovesse passare dal Pd al M5S (c’è già pronto il nome dell’ex direttore del Tg1 Giuseppe Carboni) allora «sarà la prova che Conte si è messo d’accordo con le destre», ragionano fonti parlamentari dem. In casa 5s la mettono giù altrettanto dura: «Dopo quello che il Pd e Renzi hanno fatto alla Rai non possono dare lezioni a nessuno».
Schlein però rivendica la sua alterità anche rispetto al passato del suo partito. Già a febbraio organizzò un sit-in a viale Mazzini (il M5S non si presentò, Avs e centristi sì). «Basta con Tele Meloni e con un servizio pubblico svilito a portavoce della propaganda del governo», le parole della leader Pd. Da allora non ha cambiato idea. Anzi. Gasparri gongola: «Vedo che le mie opinioni sulla Rai ora sono condivise anche da Conte».
Calenda tira in ballo la «rettitudine morale» di alcune opposizioni. «Se sono comprabili, finisce che tutti i discorsi sull’alternativa di governo decadono», l’attacco rivolto a 5s e Avs. La replica di Bonelli e Fratoianni: «Dopo aver perso diversi parlamentari ora Calenda ha perso anche la testa». Il Leader di Si però non drammatizza lo strappo col Pd: «È solo un passaggio parlamentare su cui abbiamo opinioni diverse».
ANDREA CARUGATI
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