Mi ha colpito la frase di un intellettuale statunitense. L’ho sentita stamane di sfuggita, ma è una di quelle frasi che ti trapanano il cervello perché sono verità quasi assolute in un mare magnum di dubbi e incertezze su quanto ci accade intorno ogni giorno.
In merito alla strade dei poliziotti avvenuta a Dallas, il colto uomo americano sosteneva che la violenza è sistemica negli Stati Uniti e che la gente è, proprio per questa sistemicità, molto più manipolabile del previsto.
Somiglia un po’ all’evangelico richiamo a non fare uso della forza e della brutalità per non generarne altra, per evitare il ripetersi incessante di vendette e controvendette che un tempo erano appannaggio solo della mafia e che oggi, invece, diventano uso e costume ammantato dei motivi più disparati.
L’assassino di Dallas era un riservista afroamericano che odiava i bianchi. Non sappiamo se i poliziotti che hanno ucciso due neri gratuitamente, senza alcun motivo, odiassero le persone di colore, ma pare che il motivo scatenante dell’esecuzione mirata sui poliziotti fosse questo.
Una punta di odio che è cresciuta dopo quei fatti e che ha fatto saltare lo schema della convivenza nella mente di Micah Johnson. Un uomo che era stato militare in Afghanistan, che mostrava simpatia per il “Black power”, ormai molto lontano dal tempo di Martin Luther King.
Il reverendo marciava per la pace e per i diritti universali, qui invece sono le marce della pace che vengono aggredite e risolte in un bagno di sangue.
La violenza come sistema, dunque, anzi qualcosa ancora di più del semplice “sistema”: la violenza come elemento fondante di una cultura, di una società, quindi un pilastro quasi antropologico, un costrutto essenziale per vivere negli Stati Uniti d’America? E’ una domanda che dobbiamo farci dopo che, per molte e troppe volte, ci siamo detti che negli Usa la libertà di possesso delle armi è legge, è quindi riconosciuta dalle norme dei codici e dalla tradizione del vecchio West.
L’autodifesa, che noi in Italia concepiamo – per fortuna – ancora come una eccezione da stigmatizzare perché provoca sempre dei morti evitabili e perché quelle morti sono sempre dubbie, circoscritte da fumose dichiarazioni di chi ha sparato e che tende a proteggersi in ogni caso dietro la “legittima difesa”, ebbene questa autodifesa è nella Repubblica stellata un modo di interpretare i rapporti sociali. L’extrema ratio? Se anche lo fosse, sarebbe davvero una ragione irragionevole, perché legittimerebbe la conclusione di una controversia con la morte di uno dei due contendenti.
Tanto vale riprendere la nobile tradizione medievale e anche ottocentesca dei duelli. Non sparatevi a sangue freddo, fatelo convocando alle cinque del mattino su un bel prato due padrini, i testimoni e prendendo due pistole eguali, contando i passi, voltandovi, prendendo la mira e bang!
Le cronache nere sarebbero piene di eventi del genere e quelle rosa rimarcherebbero qualche aspetto galante, scendendo nei dettagli del contenzioso, magari un tradimento amoroso, un caso di offesa irreparabile se non con il sangue versato.
Ecco. Il sangue da versare. Per avere ragione o anche soltanto per tentare di far prevalere le proprie opinioni si spara, si uccide, si distrugge l’altro.
Ha ragione quell’intellettuale americano: la violenza fatta sistema rende manipolabili le coscienze delle persone molto di più rispetto alla dialettica pura e semplice. Lo sforzo della parola esige il ragionamento. Lo sforzo dello sparo solo una leggera pressione sul grilletto.
MARCO SFERINI
9 luglio 2016
foto tratta da Pixabay