L’eredità del fascismo, di quello che avrebbe fatto anche cose buone, è il grigiore cronachistico delle atrocità commesse al centro-nord nel periodo più feroce della dittatura, associata all’occupazione nazista.
Le centoventi giornate di Salò figurano un opprimente, claustrofobico, disgustoso quadro di escrescenze putride, di quella volgarità che Pasolini individua nella degradazione dell’individuo, nella sottomissione totale.
I quasi due anni di agonia del regime di Mussolini somigliano tanto ad una decadentissima, disperata difesa di un mondo che è stato travolto dalla rivoluzione conservatrice della guerra, dalla devastazione di un mondo in cui l’Italia è sul banco degli accusati per aver generato quella condizione di immiserimento sociale, politico, (in)civile e anti-culturale.
Per avere, quindi, peggiorato l’esistenza di milioni e milioni di proletari e di sottoproletari la cui sopravvivenza è aggrappata ad un giornaliero sperare, ad un ascetismo arduo da digerire nella pochezza di una fame di vita che nei giovani appena usciti dalla guerra e dall’orrore assume le fattezze imprecise e scontornanti di una austerità economica e morale a cui non si può sfuggire.
L’eredità del fascismo data agli anni del primo dopoguerra è anzitutto questa: la miseria nera, la scarnificazione delle esistenze, la desertificazione di una socialità che, tuttavia, la lotta contro l’occupante, per la liberazione del Paese, ha in qualche maniera rinvigorito.
L’epopea resistenziale è pure questo: una riemersione risorgimentalista di un partigianato nazionale che, per la prima volta dal 1848, ritrova sé stesso in chiave solidaristica e fa riconoscere al simile il suo simile, tanto sul piano della condivisione politica di nuovi valori che saranno alla base del patto repubblicano e costituzionale, quanto su quello di una lotta di classe per cui l’uguaglianza vera è l’impegno nella direzione dell’universalismo dei diritti, oltre che dei doveri.
Quando Pier Paolo Pasolini, nel 1955, pubblica con Garzanti “Ragazzi di vita“, fa il ritratto di una periferia romana in cui l’eredità del fascismo è soprattutto questa: la consapevolezza della propria miseria, del proprio stato di indigenza cronica, del fatto che, dopo la dittatura, dopo la guerra, dopo la distruzione di una Italia privata di qualunque dignità morale, politica e civile, non rimane niente altro se non arrangiarsi alla meglio con tutta una serie di espedienti che, spesso e volentieri, oltrepassano quella legalità cara ad una borghesia che bada alle forme e trascura le sostanze.
Dopo essere venuto via dalle terre friulane, accusato di atti osceni e immoralità, il giovane poeta, conosciuto in quel momento soltanto nella terra in cui la famiglia si era rifugiata e in cui si viveva «nella più sorda penombra di pioggia», si dirige verso Roma, per lasciarsi alle spalle uno dei primi turbolenti e difficili rapporti tra la sua corsarità e il tradizionalismo perbenista di una borghesia campagnola e alpestre ancora più retriva di quella urbana.
A Roma può vivere e respirare la grandezza della tragedia dei suoi tempi: lì parlano dell’eredità del recente passato tanto il centro della capitale quanto, soprattutto, le borgate fatte costruire dal regime fascista.
Anche questa una eredità della differenziazione esclusivista che Mussolini aveva interpretato e mostrato propagandisticamente come eccellenza della sua politica di affezione verso il popolo. Ai bordi dell’Urbe una cintura di quartieri dove si ammassano i poveri. Al centro la bella vita, il volto rispettabile di una società italiana proiettata nell’avvenire mai costruito.
Quello che rimane, appena dopo il passaggio da città aperta a liberata dagli americani, è San Lorenzo bombardato, sono i simboli rovinati giù a colpi di piccone dai palazzi del potere, ed è la grande fame di un proletariato che non sa dove sfollare, dove accatastare i propri corpi divenuti fantasmi che vagano tra le macerie morali e materiali dell’eternità romana.
Pasolini che si trasferisce in uno di quei quartieri moderni, falansterizzati da metri cubi di cemento gettato a formare le nuova fondamenta di un progresso inimmaginabile, entra in contatto con i ragazzi di quella vita. Con pischelli che girovagano per le vie di quartieri considerati (ed effettivamente) pericolosi per chi non è del luogo. Alcuni di questi giovani lo guardano con stupore ma lo accolgono come amico.
Lui gioca spesso a pallone con loro, empatizza e simpatizza per la straordinaria capacità di resilienza che hanno intere famiglie, interi baraccati, che si procurano il poco per vivere rubacchiando a destra e a manca, cercando rame da vendere, copertoni da riutilizzare, andando di notte negli orti ancora di guerra ad “accollarsi” sacchi di cavolfiori e di altri ortaggi.
Questo, che è il primo romanzo di Pasolini, è soprattutto un atto letterario del tutto nuovo. E’ un punto di non ritorno al passato per una scrittura che mette insieme la crudezza di un neorealismo che aveva raccontato tutta la potenza deflagrante della tragica epopea bellica, della lotta partigiana e della distopia culturale vissuta dagli intellettuali dell’epoca, con l’oggettività del racconto quotidiano.
Il racconto è una descrizione amorevole ma non sdolcinata delle cronache letteralmente borgatare; Pasolini non si arresta davanti alla superficialità degli accadimenti, ma supera lo strato epidermico di una società della povertà nerissima, penetrando nelle pulsioni emozionali e nei crampi gastrici di gente che non aveva un tozzo di pane da dare ai figli, che faceva continue domande per avere una casa popolare e se le vedeva respingere.
Dei ragazzi di vita incontrati da Pasolini in questi quartieri, eredità del fascismo a cui si sommano nuove improvvisate borgate fatte di baracche in legno, dove staccionate e cancelletti sono ricavati dalle reti dei materassi, dove scorrono rigagnoli putridi e maleodoranti di melma, dove il centro dell’Urbe è visto da lontano, quasi fosse un altro paese, un’altra nazione, il più delle volte separata dai nuovi tracciati stradali e dai ponti ferroviari, quasi nessuno frequenta la scuola.
Tutti si danno a lavoretti per far campare famiglie numerose dove si fanno figli proprio per tentare di avere un minimo di sopravvivenza. E’ il ritratto perfetto del proletariato che scende, dalla condizione operaia e dell’organizzazione di classe, ad una anarchia di comportamenti che prescindono da qualunque regola, da qualunque coscienza di sé stesso.
Ognuno pensa per sé stesso e finisce col ricalcare l’egoistico presupposto borghese dell’individualismo a tutti i costi che, una volta che anche il giovane Riccetto sarà cresciuto, diverrà il demone inseparabile di una sua trasformazione personale che gli farà dimenticare il trasporto empatico verso una condivisione della sorte, delle disgrazie, così come dei lampi di avventure in cui, per un attimo, per un momento, ci si è potuti gustare un pasto caldo spendendo tutto quello che si era guadagnato.
Letterariamente e linguisticamente, il romanzo pasoliniano è quell’innovazione che, almeno dal Belli in avanti, non si era più riscontrata nella scrittura di opere inserite nella storia dell’evoluzione culturale nazionale del Paese. Il dialetto romanesco, o se vogliamo essere più precisi, il “gergo” tipico degli abitanti della capitale (e dei dintorni), è il modo di parlare dei pischelletti che Pasolini incontra. La sua decisione è di trasportarlo interamente nel romanzo.
Quando i ragazzi pensano, dialogano fra loro, se ne dicono di tutti i colori e lo fanno in romanesco. Alcuni termini tipici vengono addirittura resi nella prosa dell’opera, al di fuori dei virgolettati, e sembrano essere così un tributo di Pasolini a quel mondo in cui ritrova la genuinità delle emozioni, la purezza dei sentimenti che, non per forza, devono essere letti alla luce della tradizionale morale borghese.
Dal Tevere all’Aniene, la storia si svolge unitariamente e distintamente al tempo stesso: i capitoli sono passaggi in cui tutto si tiene ma ogni storia è un dramma singolare, pur dentro la riconoscibilità delle cause comuni da cui tutto questo è generato.
La miseria, la mancanza di istruzione, di cure sanitarie, la prostituzione come mezzo di sostentamento tanto femminile quanto maschile (quest’ultima scandalizzò tanto Segni e il governo di allora da indicare alla magistratura di indagare sulla presunta oscenità e scabrosità dell’opera), il ladrocinio, si accompagnano a momenti intensi di recupero degli affetti, così come a incontri e scontri con la legge, la giustizia e l’ingiustizia.
Si può finire in carcere per un furto non commesso, si può morire per ustioni legati ad un palo: sfida estrema, eccesso sadico di una prova che sembra quasi voler essere un rito di iniziazione, un passaggio scollinante verso una maturità che ha tolto, con il suo crudele esame giornaliero di sopravvivenza alla miseria, ogni alibi all’adolescenza, alla pubertà.
Quando la Comare secca si viene a prendere la maggior parte dei ragazzi di vita, Riccetto è ormai un adulto ed è troppo lontano da quel ragazzino che era quando si gettava nelle acque del Tevere per salvare la rondine che vi stava morendo. La conformità lo ha allontanato da sé stesso, lo ha fatto diventare un uomo che non vuole perdere le sicurezze che ora ha: un lavoro e magari la prospettiva di potersi creare una famiglia.
Così, mentre il suo amico Genesio scivola via tra le acque dell’Aniene, avviluppato dai gorgoglii del fiume, questa volta non sceglie di gettarsi in acqua. Non tenta di salvare, dopo la rondinella, anche lui. In quella gelide spirale dei flutti, finisce una giovinezza passata tra la “zozzeria” delle strade, tra pezzi di cose da rivendere, tra furti nei mercati e scippi sui tram, sbarre del carcere e la ricerca del “froscio” di turno a cui darsi per avere qualche soldo in tasca.
Il processo che sarà intentato contro l’editore Garzanti e contro Pasolini per oltraggio alla morale, finirà con una assoluzione. L’Italia di allora è democristianissima, ed il Partito Comunista Italiano è piuttosto tradizionalista, familistico, per niente aperto a considerare la sessualità come un piacere. Da Casarsa a Roma, la fama baudelariana del “maledetto” lo accompagnerà come un epifenomeno da cui sarà impossibile liberarsi.
Il partito lo caccerà per “indegnità morale e politica” e potrà tornare ad insegnare soltanto dopo essersi trasferito nella capitale. Quando con “Ragazzi di vita” il tema della sessualità e dell’omosessualità rientrerà dalla finestra, dopo esserne stato cacciato dalla porta, l’Italia intera dovrà fare i conti con una doppiezza morale e una repressione dei costumi che avrà, di lì a poco, la resa di conti con il biennio rivoluzionario: il 1968-69.
Pasolini, proprio nel movimento studentesco, ritroverà quella forza del risorgimentalismo, quell’entusiasmo verso un cambiamento che non permetterà a nessun ambito della quotidianità di dirsene estraneo. Ancora una volta, i giovani sono al centro di una narrazione pasoliniana che, nel romanzo, ne vede la più candida purezza soltanto nell’innocenza di una infanzia che, con il passaggio all’età maggiore e matura, sarà corrotta dai dettami della morale borghese e del conformismo.
Nel nuovo millennio ci si domanda ancora del ribellismo giovanile, dei gesti sconsiderati di youtuber che fanno a gara con la morte, di chi, proprio a partire dalle nuove periferie della Roma moderna, pensiamo soltanto alla notorietà cui è giunto il caso di Caivano, mostra una aggressività che non è voglia di vivere, ma di eccedere per eccedere, di farsi notare per poter essere accettato dal branco, per poter essere dentro un sistema di piccolo potere in cui la microcriminalità è la cifra dello sviluppo antisociale.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con i ragazzi di vita di Pasolini. O tempora o mores, certo, ma dalla voglia di esprimere il desiderio di vivere (e non di sopravvivere) si è passati ad un nichilismo preoccupante, ad un sadismo che è fuori dalla scena del ribellismo genuino di una gioventù che ruba solo per mangiare o ama senza violentare.
Possiamo interrogarci su chi siano oggi i ragazzi di vita e su come scriverebbe Pasolini un romanzo sulle periferie romane e italiane nel 2024.
Non possiamo darci alcuna risposta se non tentando di intuire, di avvicinarci a quella voglia di conoscere a fondo i drammi della quotidianità: fin nel più profondo degrado. Una aderenza ad un mondo in cui sicuramente c’è ancora qualcuno che si getterebbe “a fiume” per salvare una rondinella. Ma in cui molti, troppi volterebbero la schiena tanto al volatile quanto al Genesio moderno.
RAGAZZI DI VITA
PIER PAOLO PASOLINI
GARZANTI
€ 13,00
MARCO SFERINI
17 gennaio 2024
foto tratta da Wikipedia
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