27 novembre 1938. Nona giornata di campionato. Allo Stadio Filadelfia il Torino affronta il Napoli. A sbloccare il risultato, al ventiseiesimo minuto, è un calciatore che in quel momento non poteva sapere che quello sarebbe stato il suo ultimo goal in serie A, ne segnerà un altro il mese successivo in Coppa Italia (competizione che aveva vinto nel 1936). Non poteva sapere che sarebbe diventato un partigiano, un giornalista, un attore di livello internazionale. Il suo nome era Raffaele, poi semplicemente Raf Vallone.
Nato a Tropea, in Calabria, il 17 febbraio del 1916, da bambino si trasferì coi genitori a Torino, città natale del padre Giovanni che esercitava la professione di avvocato. La madre, invece, apparteneva ad una nobile famiglia calabrese dei Mottola D’Amato, titolo che per amore del marito non passò mai al figlio, che peraltro non ne sentiva alcuna necessità.
Raffaele Vallone studiò al liceo, per poi laurearsi prima in Lettere e Filosofia, poi in Giurisprudenza. Tra i banchi di studio incrociò l'”avvocato per eccellenza” Gianni Agnelli, col quale mantenne un’amicizia per tutta la vita; tra gli insegnanti figure del calibro di Mario Fubini, poi direttore dell’UTET, Luigi Einaudi e Leone Ginzburg, che segnarono il suo percorso. Secondo le memorie dell’attore, il futuro Presidente della Repubblica che allora insegnava economia, affermò: “La preferisco come calciatore che come economista”, mentre l’intellettuale antifascista, per riprendere la biografia di Ginzburg curata da Angelo d’Orsi, fu il primo a farlo recitare davanti ad un pubblico. Ma il calcio era la sua grande passione.
Vallone con un fisico marmoreo e un grande fiato, era cresciuto nelle giovanili del Torino, i Balon Boys, con cui aveva vinto il titolo italiano nel 1930-1931. Poi, alternando esami a schemi, era passato nella prima squadra debuttando in seria A, sempre con la maglia granata, nella stagione 1934-1935. Non era ancora il “Grande Torino”, ma era un buon Torino: campione d’inverno, poi vincitore della Coppa Italia nel 1935-36. Una squadra che riusciva a gareggiare alla pari con la Juventus e con l’Ambrosiana-Inter che vantava un fenomeno chiamato Giuseppe Meazza.
Complessivamente Raffaele Vallone raccolse 40 presenze in serie A. Tutte, se si esclude un anno di prestito al Novara, con la maglia granata del Torino che rimase la sua squadra. Smise di giocare dopo la finale dei campionati studenteschi a Vienna contro i padroni di casa. Era stato selezionato dalla nazionale. Ma quell’Austria, ormai annessa alla Germania, non doveva e non poteva perdere. Arbitraggio scandaloso e vittoria austriaca. Schifato Raffaele Vallone lasciò il calcio e accettò l’invito del padre che lo voleva avvocato. La prima causa fu un insuccesso e poi ci fu l’8 settembre.
Faceva il militare a Tortona quando venne contattato da Vincenzo Ciaffi, latinista appassionato di filosofia e di teatro, “colto, coraggioso, forte, un uomo eccezionale”, come ricordò Vallone, e soprattutto uno dei dirigenti di Giustizia e Libertà e del Comitato di Liberazione Nazionale. Ciaffi chiese a Vallone di individuare altri antifascisti. Si instaurò subito un rapporto col soldato Antonio Bernieri, poi deputato del PCI. A fare da contatto il libro “Nuova York” di Dos Passos, ma a “tradire” fu la dedica “Abbiamo gli stessi interessi, credo che questo romanzo ti piacerà”. Raffaele Vallone venne arrestato e portato a Como in una palestra adibita a carcere. Si dichiarò antifascista, ma non fece i nomi degli altri. Anche per questo per lui il giorno dopo era pronto un treno per la Germania. Un “repubblichino” forse conoscendolo gli suggerì la fuga. Vallone si buttò vestito nel lago di Como. Era il marzo del 1944, l’acqua era dannatamente fredda, le SS sparavano dalla riva, ma Raffaele riuscì a fuggire.
Rientrato, Vallone venne incaricato da Ciaffi di svolgere attività di propaganda per Giustizia e Libertà. Il lavoro che fece fu prezioso anche per comunicare, tra letture di poesie rese possibili grazie a tecnici della radio repubblichina, che la stagione nazifascista stava per finire. Ormai era un punto di riferimento della Resistenza torinese e non solo. Militante del Partito d’Azione collaborò con Davide Lajolo, comunista, il partigiano “Ulisse”, che lo convinse a scrivere le pagine culturali de L’Unità. Rischiarono la vita nelle Langhe, ma ormai la Liberazione era vicina.
Dopo la guerra Vallone continuò a scrivere per L’Unità benché non iscritto al PCI. Palmiro Togliatti, “una mente superiore” per Vallone, partecipava spesso alle riunioni di redazione e una volta chiese se tutti fossero iscritti. Qualcuno rispose: “No, Vallone no”. Lui lo squadrò e sorrise: “Però fai una bella terza pagina”. Per L’Unità riuscì ad entrare in contatto e a raccontare delle realtà lavorative, dagli operai della FIAT, che lo riconobbero come calciatore, alle mondine del novarese. Già, le mondine.
Nel 1948 il regista Giuseppe De Santis lo contattò. Aveva letto la sua inchiesta sulle risaie e voleva saperne di più. Si incontrarono e Vallone, che aveva coltivato la passione per la recitazione, aveva calcato amatorialmente il palco del teatro Gobetti ed era apparso, benché non accreditato, nei film del 1942 Noi vivi e Addio Kira diretti da Goffredo Alessandrini, si mise a recitare per gioco il testamento del soldato Woyzek di Büchner (portato sul palco nel 1946 per la regia dell’amico Vincenzo Ciaffi). De Santis che era alla ricerca di volti nuovi lo scritturò. Avevano già firmato per il film Silvana Mangano e Vittorio Gassman, mentre Raffaele divenne semplicemente Raf Vallone. Il 21 settembre del 1949 uscì Riso amaro.
Torino. Francesca, istigata dal suo uomo, Walter (Vittorio Gassman), ruba una collana ad un cliente dell’albergo nel quale lavora come cameriera. Per far perdere le proprie tracce, i due si mescolano alla folla delle mondine che si accalcano sui treni in partenza per le zone di raccolta, nel Vercellese. Nel dormitorio delle mondine una compagna di lavoro, Silvana (Silvana Mangano) deruba Francesca della collana. Walter, sospettando che la bella ragazza sia l’autrice del furto, le fa la corte. Silvana si lascia circuire e diventa la nuova amante di Walter, mentre Francesca, pentita delle colpe, si è legata al sergente Marco Galli (Raf Vallone) che in precedenza stava proprio con Silva. Walter, avendo scoperto che la collana rubata è falsa, decide di rifarsi organizzando il furto del riso appena stivato nei magazzini. Mentre le ragazze festeggiano la fine della stagione del raccolto, il piccolo malavitoso convince Silvana ad immettere di nuovo l’acqua nelle risaie per distrarre l’attenzione delle mondine e degli operai. Ma Francesca e Marco intuiscono la manovra colgono il ladro sul fatto. Nella sparatoria che segue, nella macelleria, Walter si difende furiosamente, insulta Silvana umiliandola con la rivelazione che la collana è falsa. E Silvana, sconvolta, afferra la pistola e lo uccide. Poi, disperata e incapace di perdonarsi il male commesso si uccide gettandosi dalla torre cide della fattoria. Francesca, a fianco di Marco, si avvia verso un destino mentre le migliaia di mondine si dirigono ai treni riprendendo la strada di casa.
De Santis, appena trentaduenne, firmò il suo capolavoro, un appassionante melodramma a sfondo sociale. Una critica, secondo le parole del regista, al “tipo di giovani incoscienti, incapaci di comprendere la propria condizione e di lottare accanto ai propri compagni, perché deviati verso una vita fittizia che li condanna all’annientamento”. Il film, distribuito col titolo internazionale Bitter Rice, venne candidato all’Oscar e alla Palma d’Oro e contribuì a fare dei tre attori delle stelle indiscusse. Indimenticabile la sensualità di Silvana Mangano.
Raf Vallone, che aveva lasciato dolorosamente L’Unità per accasarsi alla Lux, recitò anche nel successivo film di De Santis, Non c’è pace tra gli ulivi.
Reduce dalla guerra, il pastore ciociaro Francesco Dominici (Raf Vallone) si scontra con lo spregevole Agostino Bonfiglio (Folco Lulli), un ricco allevatore arricchitosi con la borsa nera, che non solo gli ha rubato le pecore, ma sta per sposare la sua fidanzata Lucia Silvestri (Lucia Bosè). Deciso a riprendersi il gregge, Francesco organizza un piano che coinvolge tutta la famiglia, ma la sorella minorenne Maria Grazia (Maria Grazia Francia) viene stuprata da Bonfiglio, cosa che fa saltare il matrimonio, mentre Francesco viene arrestato e processato. Riuscito ad evadere fa di tutto per far valere le sue ragione, con Lucia tornata al suo fianco.
Un film duro, uscito nel 1950. “Il modello è il western americano, l’iconografia è quella della Resistenza e delle brigate partigiane, lo svolgimento quello di un melodramma turgido e la morale è marxista, ma declinata dal togliattismo” (Mereghetti). Con questo ruolo Raf Vallone tratteggiò il prototipo dell’uomo mediterraneo verace e sanguigno, un profilo che piaceva anche oltreoceano, che rafforzò nel successivo Cuori senza frontiere (1950) al fianco di un’altra diva, Gina Lollobrigida, questa volta diretto da Luigi Zampa.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la linea di confine tra Italia e Jugoslavia attraversa un piccolo paese, sconvolgendo le vite di Donata Sebastian (Gina Lollobrigida), Stefano (Erno Crisa), Domenico (Raf Vallone) e soprattutto quelle dei bambini, separando case e affetti. Tra i ragazzi Pasqualino (Enzo Staiola), fratello di Donata, finirà per essere ucciso.
Un altro dramma politico-sociale, con esplicito riferimento ai confini ad est del Paese ridisegnati dopo la guerra, che si regge soprattutto sulle interpretazioni, inclusa quella del piccolo protagonista di Ladri di biciclette, e sui momenti di costume tipici di Zampa.
Ormai Raf Vallone era uno dei volti più conosciuti del Neorealismo. Sempre nel 1950 recitò ne Il cammino della speranza da un soggetto di Federico Fellini, Tullio Pinelli e Pietro Germi, che firmò anche la regia.
La chiusura di una zolfatara in Sicilia mette sul lastrico i minatori. La disperazione li induce ad accettare la proposta di un “mediatore” Ciccio Ingaggiatore (Saro Urzì) che promette lavoro in Francia. Alcuni di loro, su consiglio del carismatico Saro Cammarata (Raf Vallone), accettano la proposta e lasciano il loro denaro nella mani di Ciccio che durante il viaggio, alla stazione di Roma, scompare. I minatori e le loro famiglie decidono di proseguire, nonostante la crescente sfiducia, uno scontro coi braccianti in sciopero e picchi di tensione: Saro uccide in un duello rusticano sulla neve delle alpi il malvivente Vanni (Franco Navarra), che si era unito alla comitiva, autoritario e possessivo nel confronti di Barbara Spadaro (Elena Varzi) che, durante il viaggio, si era amorevolmente presa cura dei figli di Saro Alla fine il gruppo stremato raggiunge il confine francese, viene fermato dagli ufficiali della dogana che comprendendo il loro dramma li lascia passare.
Un’odissea di un gruppo di disperati (corsi e ricorsi storici), presentata a Cannes e premiata nella prima edizione del festival di Berlino. Celebre anche la canzone “la canzone Vitti ‘na crozza”. Il film fu doppiamente importante per Raf Vallone che sul set conobbe Elena Varzi, attrice nata a Roma il 21 dicembre 1926. I due si innamorarono, si sposarono, ebbero tre figli, Eleonora e i gemelli Saverio e Arabella, e rimasero insieme per tutta la vita.
Raf tornò presto sul set, cambiando per la prima volta genere. Interpretò, infatti, il protagonista di un poliziesco diretto da Fernando Cerchio, che in seguito diresse alcune parodie con Totò protagonista. Il film si intitolava Il bivio (1951).
Divenuto il capo di una banda di gangsters, Aldo Marchi (Raf Vallone) riesce ad infiltrarsi nella questura di Torino e ad assumere il ruolo di vicecommissario per poter avere le informazioni necessarie per le sue rapine. Ma il confronto con gli innocenti arrestati al suo posto e la morte della moglie di uno dei sospettati mettono in crisi il suo cinismo.
Un noir insolito coi dilemmi di un protagonista attivo nella Resistenza e divenuto criminale (in anticipo anche rispetto a Caccia al ladro di Alfred Hitchcock) che ebbe più di un problema con la censura per frasi tipo “vado a donne” e per le immagini della polizia disarmata e messa al muro che, secondo la stessa censura, potevano “essere di scuola e di incentivo al delitto”.
Sempre nello stesso anno Vallone tornò a recitare con la moglie Elena Varzi in un film diretto da Curzio Malaparte, voce autorevole del Neorealismo letterario, per la prima e unica volta alla regia. Il 24 marzo 1951 uscì Il Cristo proibito.
Bruno (Raf Vallone) reduce dalla campagna di Russia torna nella natia Toscana, atteso da Nella (Elena Varzi), per vendicare il fratello partigiano fucilato dai tedeschi poiché tradito da un compaesano. Ma i paesani, stanchi della violenza della guerra, si rifiutano di fare il nome. Il sacrificio di Mastro Antonio (Alain Cuny) che si fa uccidere al posto del colpevole, farà riflettere Bruno sui limiti della vendetta e della giustizia.
Malaparte, adattando un suo romanzo, raccontò un’Italia non pacificata, divisa, carica di odio. E anche in questo caso, benché il film venne presentato al Festival di Berlino (Vallone era “presente” a quella prima edizione con due film), suscitò polemiche. Per Malaparte Vallone era “l’unico volto marxista del cinema italiano”. Nel film anche Gino Cervi, che aveva partecipato alla Marcia su Roma, che interpreta un sacrestano comunista.
Sul finire dell’anno Raf Vallone recitò nuovamente al fianco di Silvana Mangano e Vittorio Gassman. Alberto Lattuada, infatti, che cercava di rifarsi dopo il disastroso Luci del varietà, ricostruì il magnifico terzetto di Riso amaro in Anna, uscito il 20 dicembre 1951.
La vita di sorella Anna (Silvana Mangano), infermiera all’ospedale Niguarda di Milano in attesa di prendere i voti, è sconvolta da un ferito in corsia in cui riconosce Andrea (Raf Vallone), l’uomo che voleva sposarla e farle smettere di fare la ballerina nel night dell’ex amante Vittorio (Vittorio Gassman). Quando lo scontro tra i due aveva portato all’uccisione, per legittima difesa, di Vittorio, Anna era entrata in convento, ma ora tutto era cambiato.
Costruito grazie all’uso del flashback, il film mostrò un ritratto femminile inedito, con la protagonista divisa tra l’amore per un uomo e quello per la fede. Due brani scritti per il film, e interpretati da Flo Sandon’s, sono tuttora molto conosciuti “Non dimenticar…” e “El Negro Zumbón”. Anna, in cui recitò anche una giovanissima Sophia Loren accreditata come Sofia Lazzaro, fu il primo film italiano a superare il miliardo di lire di incasso e il primo film straniero ad essere doppiato negli Stati Uniti.
Dopo Carne inquieta (1952) di Silvestro Prestifilippo in cui interpretò Peppe un giovane calabrese che vuole coronare il sogno d’amore con la bella Fema (Marina Berti) e Le avventure di Mandrin (1952) che narra le gesta di un disertore dell’esercito francese nel XVIII secolo divenuto capo dei contrabbandieri, Raf Vallone venne nuovamente diretto dal regista che lo aveva lanciato, Giuseppe De Santis. Il 24 febbraio del 1952 uscì Roma ore 11.
A Roma decine di ragazze si presentano per un posto da dattilografa nell’importante studio di un ragioniere. Mentre aspettano sulle scale dell’edificio, raccontando le loro diverse vite e provenienze fino a quando un litigio porta al crollo della ringhiera e al disastro.
Basato su una storia vera, Roma ore 11 è un film corale, nel cast da segnalare Lucia Bosè, Elena Varzi, Massimo Girotti, che tornò ai temi del Neorealismo con un tratto quasi documentaristico. Tra gli autori un giovane Elio Petri all’epoca giornalista de L’Unità.
Fu, invece, una ricostruzione storica il successivo Camicie rosse (Anita Garibaldi) diretto da Goffredo Alessandrini.
Anita (Anna Magnani) segue le imprese di Giuseppe Garibaldi (Raf Vallone) dalla caduta della Repubblica Romana nel 1849 alla fuga da San Marino verso Venezia.
Un film che si ricorda, soprattutto, per i problemi sul set tra Anna Magnani, anche produttrice e, in parte, sceneggiatrice, e l’ex marito Goffredo Alessandrini che venne sostituito dall’esordiente Francesco Rosi.
Raf Vallone nei primi anni Cinquanta era uno degli attori italiani più prolifici. Dopo una modesta parentesi in una cooproduzione italospagnola, Los Ojos dejan huellas (Uomini senza pace), nel 1953 uscì Gli eroi della domenica diretto Mario Camerini.
Una piccola squadra di calcio sta per retrocedere e deve affrontare la difficile trasferta sul campo del Milan. Il centravanti ed eroe dei tifosi Gino Bardi (Raf Vallone), prossimo al ritiro, sembra disposto a vendere la partita, ma la sua sportività, prevarrà.
Uno dei primi film sul calcio, e chi poteva interpretarlo se non Raf Vallone che un eroe della domenica lo era stato per davvero, che vanta la presenza dei veri calciatori del Milan dell’epoca, su tutti Carlo Annovazzi e gli svedesi Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, Nils Liedholm. Nel cast anche Marcello Mastroianni nei panni di uno dei tifosi.
Fu un successo di pubblico anche il successivo Perdonami! (1953) diretto da Mario Costa.
A Genova l’amore tra l’immigrato calabrese Marco Gerace (Raf Vallone) e la giovane Anna (Antonella Lualdi) è ostacolato dal sospetto che il fratello della donna, Nicola (Aldo Bufi Landi), possa aver ucciso Carlo, il fratello di Marco, e dalla presenza di Vera (Tamara Lees) disposta a tutto per conquistarlo.
Altro melodramma, genere molto diffuso all’epoca, con qualche sfumatura sociale.
La carriera di Raf Vallone continuò con impegni sempre più internazionali.
Dal 2 marzo al 28 aprile 1953, infatti, pressi gli studi di Neuilly in Francia Raf Vallone recitò al fianco di Simone Signoret diretto da uno dei maestri del realismo francese, Marcel Carné che, dopo quell’irripetibile stagione cinematografica (da ricordare Le jour se lève e Les Enfants du paradis entrambe recitati dalla sua musa Arletty), stava cercando una nuova via espressiva. Adattò insieme allo sceneggiatore Charles Spaak, padre di Catherine, il romanzo di Émile Zola intitolato “Thérèse Raquin” che era già stato portato sul grande schermo, nel 1915 da Nino Martoglio e nel 1928 da Jacques Feyder, ma nella versione di Carné venne ambientato nella comtemporaneità e aggiunto un protagonista, il marinaio. Il 6 novembre 1953 uscì Thérèse Raquin (Teresa Raquin).
Thérèse (Teresa nella versione italiana, Simone Signoret) andata in sposa giovanissima a Camille Raquin (Camillo nella versione italiana, Jacques Duby), uomo malato e gretto che non ama e al quale è costretta a fare da infermiera, si innamora del camionista italiano Laurent (Lorenzo nella versione italiana, Raf Vallone) che le propone di fuggire con lui. La ragazza rifiuta e l’amante confessa tutto al marito, il quale supplica Thérèse di passare ancora tre giorni con lui a Parigi, nella speranza di farla sequestrare da alcuni loschi parenti. Laurent che non fidandosi li ha seguiti, ha un diverbio con Camille che muore cadendo dal treno su cui viaggiavano. A vedere la scena è Riton (Roland Lesaffre) un marinaio di ritorno dall’Indocina che viaggiava sonnecchiando nello scompartimento dei Raquin e che, arrivati a Lione, inizia a ricattare la coppia di giovani amanti. Thérèse e Laurent riescono a pagare la somma richiesta, ma il ricattatore rimane vittima di un investimento accidentale, prima di poter fermare la sua stessa denuncia che aveva affidato ad una cameriera. I due amanti vengono così arrestati.
Una tipica tragedia del destino di Carné premiata col Leone d’Argento a Venezia. Per il critico André Bazin Thérèse Raquin è forse il film in cui “la maestria del regista ha raggiunto una ammirevole essenzialità”.
Raf Vallone venne diretto da un regista francese, Christian-Jaque, anche nel successivo film, Destinées (Destini di donne, 1954), film a episodi che raccontano tre ritratti di donne di fronte alla guerra. L’attore italiano comparve nell’ultimo dedicato alla figura di Lysistrata (i primi due sono invece incentrati su una vedova di guerra che torna in Italia e scopre l’esistenza di amante e figli del marito e su Giovanna d’Arco).
Nel 1954 Vallone tornò a recitare diretto da Alberto Lattuada in La spiaggia, film ispirato ad un fatto realmente accaduto ad Alassio, ambientato a “Pontorno” un paese immaginario della Liguria, creato con immagini di Spotorno, Noli e Finale Ligure e, per chiudere il tocco di savonesità, girato in Ferraniacolor (Ferrania è la frazione del comune di Cairo Montenotte che ospitava lo storico stabilimento).
Anna Maria Montorsi (Martine Carol) è una prostituta che, in vacanza in Liguria con la figlia Caterina (Anna Gabriella Pisani) si finge vedova per sfuggire ai pettegolezzi. La sua riservatezza la rende amica di tutti, soprattutto di Silvio (Raf Vallone), onesto sindaco comunista del paese di Pontorno dove alloggia (il nome del borgo si ispira chiaramente a Spotorno che, ironia della sorte, ha avuto l’ultimo sindaco dichiaratamente comunista in Liguria, Bruno Marengo), ma quando per una stupida scommessa un villeggiante Luigi (Carlo Romano), che conosce Anna Maria, divulga la verità, i sorrisi si tramutano in disprezzo, salvo tornare sorrisi quando Anna Maria accetta la protezione di Chiastrino (Carlo Bianco), l’uomo più ricco del paese che all’ora del passeggio serale la riaccompagna in albergo.
Una storia, non semplice da girare negli anni Cinquanta, in cui affiora una simpatia per gli emarginati e una polemica antiborghese. Il film fu anche oggetto di un’interrogazione parlamentare della DC per la scena di Martine Carol in bikini sotto la doccia.
Seguirono, nella ricca filmografia di Raf Vallone, Delirio (1954) co-diretto da Pierre Billon e Giorgio Capitani che vede al centro un triangolo amoroso tra il protagonista e due donne, interpretate da Françoise Arnoul e Elena Varzi; Obsession (Domanda di grazia, 1954) di Jean Delannoy un giallo ambientato nel mondo dei trapezisti; Siluri umani (1954) di Antonio Leonviola, finanziato anche dalla Marina militare, che ricostruisce semi documentaristicamente l’attacco nel 1941 della Regia Marina alla flotta inglese nei mari di Creta. Unico motivo di interesse del film, smorzato nella retorica patriottica dall’intervento di Carlo Lizzani, risiede nel debutto del nuotatore olimpionico Carlo Pedersoli che un decennio dopo tutti avremmo chiamato Bud Spencer.
Per Raf Vallone molti film, diversi tra loro in genere e spessore, ma mai una commedia. L’occasione capitò con un soggetto scritto da Franca Valeri e diretto da Dino Risi… forse non poteva capitare meglio. Anche perché il cast vantava, grazie alle manie di grandezza della Titanus, una buona fetta di cinema italiano: Sophia Loren, Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Peppino De Filippo. Il 12 marzo del 1955 uscì Il segno di Venere.
Due cugine, la napoletana Agnese Tirabassi (Sophia Loren) e la milanese Cesira Colombo (Franca Valeri), vivono insieme a Roma, con Mario (Virgilio Riento) il padre della prima e la zia Tina (Tina Pica). Agnese, bella e sensuale anche involontariamente, cerca un lavoro che il padre ostacola, mentre Cesira, ingenua e sognatrice, un lavoro lo ha e, dopo le parole della cartomante Pina (Lina Gennari) che vive nel suo palazzo, si convince che ogni uomo può essere quello giusto. E ci prova. Ma dal collega Mario (Peppino De Filippo) a Romolo Proietti (Alberto Sordi) che cerca di vendere un’auto usata, dal poeta truffatore Alessio Spano (Vittorio De Sica) al vigile del fuoco Ignazio Bolognini (Raf Vallone) la ignorano. Come se non bastasse quest’ultimo sposa la cugina Agnese, mentre la povera Cesira riprende rassegnata la solita vita.
Un film che non ha una vera e propria progressione narrativa, ma si regge benissimo su scene e situazioni spesso divertenti: Valeri che trova nella Loren la spalla comica che “cammina in fuori”, Sordi che prova a vendere a De Filippo l’auto del “commendator di Asti”.
Negli anni successivi Raf Vallone tornò, in nuove produzioni internazionali, a ricoprire ruoli che lo avevano reso celebre: un triangolo amoroso in Andrea Chénier (1955) di Clemente Fracassi; un dramma tra giustizia e fede in Le Secret de soeur Angèle (Il segreto di Suor Angela, 1956) per la regia di Léo Joannon; una storia di invidia e tentazioni in Les Possédées (L’isola delle donne sole, 1956) di Charles Brabant; una storia rurale vagamente ispirata all’inondazione del Polesine in Liebe (Uragano sul Po, 1955) diretto dal tedesco Horst Hachler; un dramma sentimentale in Rose Bernd (Rosa nel fango, 1957) di Wolfgang Staudte.
Quindi l’attore, dopo Anna e La spiaggia, tornò a lavorare con Alberto Lattuada nel film Guendalina, nella sale dal 20 febbraio 1957.
Guido (Raf Vallone) e Francesca (Sylva Koscina) sono i genitori, ricchi e borghesi, di Guendalina (Jacqueline Sassard). A causa dell’ennesimo litigio della coppia, la famiglia prolunga il soggiorno a Viareggio e Guendalina, una volta partiti i soliti amici, conosce un giovane studente di nome Oberdan (Raf Mattioli), se ne innamora, conosce di più se stessa, ma alla fine deve ripartire.
Un film, con buone intuizioni registiche, che racconta la trasformazione di un’adolescente ricca e viziata che scopre la ricchezza dei sentimenti, un’adolescente con il volto della esordiente Jacqueline Sassard.
Raf Vallone era negli anni Cinquanta uno degli attori più attivi, nonché uno dei pochi italiani ad avere una ribalta internazionale. Nel 1958 recitò in Spagna ne La Violetera (La bella fioraia di Madrid) di Luis César Amadori, un melodramma che si ricorda soprattutto per le canzoni di Sara Montiel, e nella pellicola La Venganza (Ho giurato di ucciderti) di Juan Antonio Bardem, zio dell’attore Javier Bardem, in cui il protagonista interpretato da Vallone esprimeva la crisi dell’intellettuale nella società franchista, per questo il film fu censurato in Spagna e Bardem passò qualche giorno in carcere.
Meglio, quindi, tornare nell’amata Francia per essere diretto da Charles Brabant in Le Piège (La trappola si chiude, 1958), un noir in cui recitò al fianco di Magali Noël, non ancora diventata “La Gradisca” di Amarcord.
Vallone tornò in Italia per girare La garçonnière (1960) di Giuseppe de Santis.
Alberto Fiorini (Raf Vallone) è un impresario edile che tradisce la moglie Giulia (Eleonora Rossi Drago) con donne che si porta nella garçonnière affittata in un quartiere popolare. La moglie lo pedina, lo scopre e poi ci si riconcilia. Ma nulla sarà come prima.
Una semplice constatazione della crisi della famiglia nell’Italia del boom economico, nulla di graffiante nonostante tra gli autori ci fossero anche Tonino Guerra ed Elio Petri.
Non clamoroso nemmeno il successivo Recours en grâce (Tra due donne, 1960) diretto da László Benedek che provò a tratteggiare le condizioni degli italiani nelle banlieu parigine. Nel film Vallone recitò con Annie Girardot.
Poi un altro successo mondiale. Vittorio De Sica scelse Vallone per un piccolo ruolo. Stava lavorando ad un testo di Alberto Moravia. Per il ruolo femminile, inizialmente venne contattata Anna Magnani che, tuttavia, rifiutò di recitare la parte della madre di Sophia Loren, allora venticinquenne, che quindi venne promossa a protagonista. Il 22 dicembre del 1960 uscì La ciociara.
Per sfuggire ai bombardamenti che nell’estate del 1943 cominciano a colpire Roma, Cesira (Sophia Loren), giovane e procace vedova, dopo il rapporto con l’amico Giovanni (Raf Vallone), lascia la capitale insieme alla figlia Rosetta (Eleonora Brown) e si reca tra i monti della Ciociaria dove è nata. Tra gli altri sfollati c’è Michele (Jean Paul Belmondo), un giovane intellettuale antifascista che, timido e impacciato, si innamora di lei, ma è Rosetta che, pudica, gli corrisponde. Quando i fascisti si ritirano e tutti credono che la guerra sia finita, Cesira e Rosetta s’incamminano verso Roma. Ma sulla strada, mentre riposano in una chiesa diroccata, vengono aggredite da dei soldati marocchini aggregati all’esercito americano e violentate. Sconvolte proseguono il loro viaggio e vengono portate in un casolare dal camionista Florindo (Renato Salvatori). La ragazza passa la serata con l’uomo, facendo preoccupare Cesira. L’annuncio della morte di Michele, che aveva accompagnato dei soldati tedeschi, fa riavvicinare madre e figlia.
Un dramma notissimo, prodotto con stile hollywoodiano, che diede nuova ispirazione a De Sica dopo i fasti del Neorealismo e consacrò la Loren premiata a Cannes e con l’Oscar.
Nonostante la ricca attività cinematografica Raf Vallone calcava con grande maestria anche il palcoscenico. Una rappresentazione in particolare lo rese ancor più celebre. Dal 1958 a Parigi per 580 rappresentazioni tutte dirette da Peter Brook, l’attore interpretò il dramma di Arthur Miller “A View from the Bridge” che in francese, lingua che Raf parlava fluentemente, divenne “Vu du pont”. Non solo attore, nella rappresentazione Vallone cambiò il finale con il protagonista che umiliato decide di suicidarsi: “Secondo me, l’uomo è vittima – spiegò Vallone – di una passione vissuta con innocenza assoluta, e quando vede dove questa passione lo ha portato, decide di farsi giustizia da se”. Secondo l’attore: “Quel finale in cui il protagonista viene preso a schiaffi e decide di farla finita è il momento più alto della mia carriera”.
Un’interpretazione talmente intensa che ebbe numerosi risvolti. Arthur Miller, che approvava quella modifica, divenne amico dell’attore nonché un abituale ospite della villa di Raf Vallone e Elena Varzi a Sperlonga, in provincia di Latina, dove si erano trasferiti. “Vu du pont”, inoltre, attirò due sguardi molto attenti e interessati.
Il primo era quello di Marlene Dietrich che lo andò a trovare nel camerino del Thèatre Antoine di Parigi. In comune avevano anche una militanza antifascista e antinazista, ma tra i due, nonostante vari pettegolezzi, ci fu solo una grande amicizia. Raf scrisse: “Credo che per descriverla esista solo un aggettivo adatto, la ‘Grandeur’. Era una donna di una generosità straordinaria, le chiedevi una matita te ne mandava 100”; Marlene, che non nascose mai di averne subito il fascino, ne parlò così in un’intervista: “Quando lo conobbi mi colpirono la sua intelligenza la sua discrezione, la sua mancanza di vanità […] Dominava totalmente la scena e c’era in lui un meraviglioso equilibrio tra sapienza interpretativa e tensione emotiva. Tutta Parigi ne fu conquistata”.
Più intenso il secondo sguardo, era quello di Brigitte Bardot che andò a sei rappresentazioni di “Vu du pont” prima di conquistarlo. Fu amore, breve, ma intenso. Raf cessò la relazione per amore della moglie Elena. I due avrebbero dovuto girare a Vienna un film, diretto dallo stesso attore, sull’invasione sovietica in Ungheria in una storia tratta da un racconto di Oriana Fallaci, altra amica di Vallone e della moglie Elena che evitò, tra l’altro, la pubblicazione delle foto con Bardot, ma non se ne fece nulla.
Si fece, invece, la trasposizione cinematografica di “Vu du pont” che venne affidata ad un giovane Sidney Lumet con un’unica condizione posta da Miller: il protagonista maschile doveva essere Raf Vallone. Il 19 gennaio 1962 uscì nelle sale italiane Vu du pont (Uno sguardo dal ponte).
L’emigrato italiano Eddie Carbone (Raf Vallone), portuale newyorchese, sposato con Beatrice (Maureen Stapleton, poi premio Oscar per Reds), ma morbosamente geloso della nipote Caterina (Carol Lawrence), accoglie in casa due immigrati clandestini parenti della moglie, Marco (Raymond Pellegrin) e Rodolfo (Jean Sorel). Ma quando quest’ultimo si innamora della nipote scatterà la folle gelosia che lo porterà a denunciare i due all’immigrazione clandestina.
Passioni inconfessabili in un dramma forte ambientato in uno scenario realistico. Celebre la scena in cui Vallone bacia Jean Sorel per umiliarlo. Raf Vallone si aggiudicò il David di Donatello, fino ad allora vinto solo da De Sica, Gassman e Sordi.
Raf Vallone complice il successo di Uno sguardo dal ponte, avviò una ricca stagione hollywoodiana, che tutt’ora non ha eguali nel panorama italiano.
Nel 1961 venne diretto da Anthony Mann in El Cid.
Le leggendarie imprese di Rodrigo Díaz de Bivar detto El Cid (Charlton Heston) e della moglie Jimena (Sophia Loren) nella Spagna dell’undicesimo secolo occupata dagli arabi. Conquistata la fiducia del Conte Ordóñez (Raf Vallone), El Cid verrà ferito mortalmente in battaglia, ma sceglierà di scagliarsi comunque contro i “mori”, legato al cavallo, che al solo passaggio si dileguano.
Una storia vera, sebbene romanzata, con l’eroe che diventa leggenda, la bella immortale e il cattivo che diventa buono. Un classico hollywoodiano.
L’anno successivo uscì Phaedra (Fedra) diretto da Jules Dassin ispirato al mito greco creato da Euripide che racconta, adattandolo all’epoca contemporanea, l’amore impossibile tra Fedora (Melina Merkouri), seconda moglie di un ricco armatore greco Thanos (Raf Vallone), e il sensibile figlio di prime nozze di lui Alexis (Anthony Perkins).
Cast di prim’ordine, con Perkins fresco del successo di Psyco e Merkouri fresca di matrimonio col regista. Ma l’ambiente alto borghese non era il più adatto al comunista Dassin, costretto negli anni del Maccartismo ad emigrare in Europa.
“Caccia alle streghe” che era finita nel 1960 quando Otto Preminger aveva annunciato che il suo Exodus era stato scritto dallo sceneggiatore comunista per eccellenza Dalton Trumbo. Preminger diresse Raf Vallone in The Cardinal (Il cardinale, 1963) in cui la storia di un prete di origine irlandese Stephen Fermoyle (Tom Tryon) viene utilizzata per raccontare la Chiesa cattolica dal 1917 all’avvento del Nazismo. Nel film l’attore italiano interpretò il Cardinale Quarenghi, guida, non solo spirituale, del protagonista.
L’anno successivo uscì The Secret Invasion (5 per la gloria) diretto da Roger Corman.
1943. Per liberare il generale italiano, ma filo-alleato Quadri (Enzo Fiermonte), prigioniero dei nazisti in Jugoslavia, il servizio segreto inglese affida al maggiore Richard Mace (Stewart Granger) il comando di un quintetto di criminali cui è stato promesso il perdono (Raf Vallone, Mickey Rooney, Edd Byrnes, Henry Silva, William Campbell).
Film di guerra con qualche invenzione e Vallone assoluto protagonista che nel 1965 recitò, nuovamente al fianco di Annie Girardot, in Una voglia da morire diretto da Duccio Tessari in cui due donne in vacanza senza mariti scommettono sulla loro capacità di seduzione prostituendosi per una notte. Finirà tragicamente.
Quindi un nuovo successo negli Stati Uniti nel film Harlow (Jean Harlow, la donna che non sapeva amare, 1965) diretto da Gordon Douglas incentrato sulla parabola artistica e umana dell’attrice degli anni trenta Jean Harlow, interpretata da Carroll Baker “mai credibile […], ma gli attori di contorno (soprattutto Vallone nella parte del patrigno e Angela Lansbury in quello della madre) si dimostrano efficaci” (Mereghetti).
Seguì, sempre negli USA, Nevada Smith (1966) un western diretto da Henry Hathaway con un cast stellare.
Il giovane Nevada Smith (Steve McQueen) impara a sparare per vendicarsi dei tre criminali che hanno trucidato i suoi genitori. Dopo aver ucciso i primi due (Martin Landau e Arthur Kennedy), il frate padre Zaccardi (Raf Vallone) gli salva la vita e gli insegna la forza del perdono prima dello scontro col terzo killer (Karl Malden).
Un western duro che racconta, non sempre in maniera convincente, la maturazione di un uomo attraverso la violenza.
Raf Vallone recitò, quindi, in: Operazione Paradiso (Se tutte le donne del mondo…, 1966) di Henry Levin e Arduino Maiuri parodia del genere 007; La Esclava del paraíso (Sharaz, 1968) diretto da José Maria Elorrieta storia da “Mille e una notte”; Volver a vivir (Grazie amore mio, 1968), regia di Mario Camus, modesto melodramma a sfondo calcistico; The Desperate Ones (1968) di Alexander Ramati storia di due fratelli polacchi che evadono da un gulag; The Italian Job (Un colpo all’italiana, 1969) diretto da Peter Collinson un misto tra commedia e azione in cui duettò con Michael Caine (nel film anche una delle poche apparizioni cinematografiche del comico britannico Benny Hill) e soprattutto in The Kremlin Letter (Lettera al Kremlino, 1970) diretto da John Huston, con quale aveva lavorato ne Il cardinale, film di spionaggio in piena “Guerra fredda” in cui recitarono anche Patrick O’Neal, Max von Sydow e Orson Welles.
Parallelamente Raf Vallone continuò anche l’intensa carriera teatrale. Oltre alle già citate rappresentazioni parigine di “Vu du pont”, portato in Italia nel 1967 con Alida Valli come protagonista femminile, recitò anche in “The Duchess of Malfi” (“La duchessa di Amalfi”) di John Webster, “The Price” (“Il prezzo”) ancora dell’amico Arthur Miller, “Ornifle” di Jean Anouilh, nel “Tommaso Moro” di William Shakespeare, al fianco del figlio Saverio, e in “Nostalgia” di Franz Jung. Successivamente diresse diverse rappresentazioni operistiche, tra queste la “Norma” di Vincenzo Bellini, con Renata Scotto, soprano savonese recentemente scomparsa, che lo “portò” nel 1970 sul palco del Teatro Chiabrera, nella sua Savona, a rappresentare lo spettacolo “Proibito da chi?” scritto dallo stesso attore.
Poi un nuovo ruolo da protagonista sul grande schermo. Era la stagione dei “film di genere” e Duccio Tessari lo coinvolse in un thriller. Il 5 settembre 1970 uscì La morte risale a ieri sera.
Donatella (Gill Bray), una ragazza affetta da una forma di disabilità intellettiva, sparisce da casa, viene avviata alla prostituzione e infine uccisa. Il commissario Duca Lamberti (Frank Wolff) cerca i colpevoli, ma prima di lui arriva il padre Amanzio Berzaghi (Raf Vallone) che ottiene giustizia a modo suo.
Tratto dal romanzo “I milanesi ammazzano al sabato” di Giorgio Scerbanenco, che aveva già visto al cinema suoi I ragazzi del massacro (1969) di Fernando Di Leo e Il caso “Venere privata” (1970) di Yves Boisset, La morte risale a ieri sera è un film meno giallo e meno cruento di altri, ma duro e crudo perché capace di raccontare “una città sempre più disumana e vittima del benessere” (Mereghetti) e lo strazio di un padre che vendica gli abusi subiti dalla figlia.
Raf Vallone tornò quindi negli Stati Uniti per recitare in un nuovo western, Cannon for Cordoba (4 per Cordoba, 1970) diretto da Paul Wendkos in cui impersonificò un rivoluzionario messicano, tratteggiato come un criminale, che si scontra con un eroico capitano statunitense interpretato da George Peppard. Poi, dopo Perché non ci lasciate in pace? con Sylva Koscina, ancora un western A Gunfight (Quattro tocchi di campana, 1971) diretto da Lamont Johnson in cui due pistoleri caduti in disgrazia (Kirk Douglas e Johnny Cash) si sfidano per soldi all’interno di una fiera.
Seguì, nella filmografia dell’attore, Un verano para matar (Ricatto alla mala, 1972) di Antonio Isasi-Isasmendi, uno dei film che più ha ispirato Quentin Tarantino.
Ray Castor (Christopher Mitchum) gira il mondo per vendicarsi degli assassini del padre. Ne uccide tre, ma si innamora della figlia (Olivia Hussey) del quarto (Raf Vallone), mentre ormai sulle sue tracce c’è un poliziotto corrotto (Karl Malden).
Quindi, sempre in ruoli minori, Raf Vallone recitò nell’horror The girl in Room 2A (La casa della paura, 1973) di William Rose e nel dramma a sfondo erotico Histoire de l’œil (Simona, 1975) diretto da Patrick Longchamps con Laura Antonelli; per poi “risalire” con film Rosebud (Operazione Rosebud, 1975) ancora diretto da Otto Preminger, che racconta la liberazione di cinque ricche ragazze rapite da un gruppo di terroristi arabi, nel cast Peter O’Toole e Richard Attenborough, The Human Factor (Il giustiziere, 1975) di Edward Dmytryk, altro film che intreccia vendetta e malavita, That Lucky Touch (Toccarlo… porta fortuna) una commedia di Christopher Miles interpretata da Roger Moore.
Seguirono Decadenza (1976) opera prima di Antonio Maria Magro, The Other Side of Midnight (L’altra faccia di mezzanotte, 1977) modesto film che intreccia guerra e amore con una giovane Susan Sarandon e Des Teufels Advokat (L’avvocato del diavolo, 1977) film tedesco diretto da Guy Green che tocca, seppur superficialmente, il tema dell’omosessualità nella Chiesa. Quindi Raf Vallone recitò nel film The Greek Tycoon (Il magnate greco, 1978) di J. Lee Thompson basato sulla relazione, all’epoca molto chiacchierata, tra Jacqueline Kennedy e Aristotele Onassis, chiamati nella pellicola Liz Cassidy (Jacqueline Bisset) e Theo Tomasis (Anthony Quinn).
Al fianco di Anthony Quinn, dopo An Almost Perfect Affair (Un amore perfetto o quasi, 1979) di Michael Ritchie, con Keith Carradine, Monica Vitti e Christian De Sica (Vallone riuscì, infatti, a lavorare con padre e figlio) e Retour à Marseille (1980) di René Allio, l’attore tornò a recitare nel film Lion of the Desert (Il leone del deserto, 1981) di Moustapha Akkad che racconta la storia della resistenza libica guidata da Omar al-Mukhtar (Anthony Quinn) all’occupazione italiana portata avanti con crudeltà dal Generale Rodolfo Graziani (Oliver Reed). Nel film, dalle tante imprecisioni storiche, ma dall’indubbio fascino, Vallone interpretò il Colonnello Giuseppe Daodice, più dialogante nei confronti di al-Mukhtar.
Seguirono, nella ricca e internazionale filmografia dell’attore, Sezona mira u Parizu (1981) di Predrag Golubovic, A Time to Die (Tempo di morire, 1982) Matt Cimber e Joe Tornatore e Paradigma (Il potere del male, 1985) di Krzysztof Zanussi, un film cupo e pessimista, sulla forza del male. Poi l’ultimo grande ruolo per il grande schermo, quello del cardinale Lamberto, il prelato che confessa Michael Corleone (Al Pacino) in The Godfather Part III (Il padrino – Parte III, 1990) di Francis Ford Coppola.
Una carriera incredibile quella di Raf Vallone che trovò fortuna anche nel piccolo schermo sia in sceneggiati di grande successo, Il mulino del Po (1963), Marco Visconti (1975), Cristoforo Colombo (1985), sia nelle vesti di presentatore e intervistatore, fece tra l’altro il provino agli allora sconosciuti Renato Zero e Loredana Berté.
Nel 2001 pubblicò la sua autobiografia “Alfabeto della Memoria” che si chiude con un racconto “Il volo di New York”, pensato come soggetto di un film, mai realizzato, con Marcello Mastroianni.
Raf Vallone, uomo di cultura, amico di Pavese e Picasso, si spense all’età di 86 anni il 31 ottobre 2002 nella clinica Villa Pia a Roma. Oggi riposa nella tomba di famiglia nel cimitero monumentale di Tropea al fianco dell’amore di sempre, Elena Varzi, morta a Sperlonga il primo settembre 2014, che fece un passo di lato nella sua carriera, per rendere magnifica e indimenticabile quella del marito. Oggi la loro memoria continua nei lavori dei figli Eleonora, attrice e presentatrice, Arabella, cantante, Saverio attore per cinema, TV e teatro, in perfetta continuità col padre.
Raf Vallone attraversò un secolo, raccogliendo successi in ogni continente, recitando al fianco di grandissime attrici e grandissimi attori, diretto da registi unici. Passò da essere il volto del Neorealismo al criminale di origini italiane, dai western alla commedia, dai noir ai film storici.
Sempre, rigorosamente, con lo sguardo fiero di chi aveva sconfitto il Fascismo.
redazionale
Bibliografia
“Alfabeto della memoria” di Raf Vallone – Gremese editore
“Marcel Carné” di Roberto Nepoti – Castoro
“Vittorio De Sica” di Gualtiero De Santi – Castoro
“Enciclopedia Rizzoli Larousse”
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Le immagini sono di proprietà dei legittimi proprietari e sono riportate in questo articolo solo a titolo illustrativo.