Se c’è un brutto spettacolo, quello è rappresentato dal turbinio di nomi che vengono inanellati in una confusa giornata di colloqui tra Matteo Salvini e le altre forze politiche.
Non è un tessitore di concordia alla vecchia democristiana maniera; più che altro è un improvvisato giocoliere delle posizioni altrui, che tenta di interpretare e male vi riesce, perché, da quel che si capisce nell’osservare nell’insieme la convulsione della corsa al Colle, l’interesse particolare prevale sui grandi proclami – un po’ di tutti, per la verità – con cui si enfatizzava il solito “bene del Paese” super omnia.
Prima è stata la smisuratamente egocentrica autocandidatura di Berlusconi a tarpare le ali del libero volo di una dialettica franca e onesta tra le forze politiche. Oggi è Salvini a ingarbugliare il gioco, a ridurre ad un confuso balbettio istituzionale quella seducente tattica che ad ogni elezione del Presidente della Repubblica è protagonista prima delle scaramucce parlamentari e anche interpersonali tra i leader dei vari partiti.
Alle soglie della quinta votazione, ballano sul vulcano i nomi di Franco Frattini, della Presidente del Senato della Repubblica Elisabetta Casellati, Sabino Cassese e, presenza costante, discreta e quasi invisibile come l’aere, Mario Draghi, che troppi hanno già consegnato alla sconfitta, mentre, viste le idiosincrasie della politica e la crisi della nobile arma del tatticismo, sotto il peso dei veti incrociati – soprattutto interni ai partiti – riemerge ogni volta come l’ultima spes.
Qualcuno si atteggia a rappresentare una sorta sceneggiata mostrandosi indignato per la durata delle votazioni e per tutto questo can can di nomi che si susseguono e fanno vertiginosamente cadere a terra qualunque buona e durevole intenzione. Chi lo fa, dimentica volotariamente i tempi medi di una elezione del Capo dello Stato.
Pochissime si sono risolte con una o due votazioni. Giustamente si ricordano Giovanni Leone e Sandro Pertini, rispettivamente eletti dal Parlamento alla 22esima e 26esima votazione. Per Leone, addirittura, la situazione di stallo durò quasi una settimana: la Democrazia Cristiana ne propose il nome alle soglie dell’undicesimo scrutinio e ne servirono altrettanti per portarlo al Colle.
Non è dunque il tempo da impiegare per eleggere il Presidente della Repubblica che deve preoccupare; semmai è lo scontro del “tutti contro tutti” che si è preso la scena da qui a trentasei ore fa, quando sia Conte sia Salvini hanno deciso di provare a saldare le loro posizioni, a dribblare le opposizioni interne (Giorgetti da un lato, Di Maio dall’altro), per mettere all’angolo le aspirazioni draghiane, trovare un nome condiviso, salvare la maggioranza di unità nazionale e poter aprire, appena eletto il Presidente, una campagna elettorale di un anno intero.
Legittimo tutto, ma così l’interesse della singola forza politica, se non prevale, quanto meno si affianca a quello collettivo, nazionale e, in questo modo, il principio “per vincere tutti non deve vincere nessuno” viene messo in soffitta e la forzatura diventa esplicita. Così tanto da non poter essere tollerata, come era ovvio, dalle altre forze che rimangono fuori dall’asse ritrovato tra Conte e Salvini.
Ma bastano poche ore perché anche questa dualità, che rinverdiva le gesta del governo giallo-verde, si appanni e finisca preda del suo stesso giochetto tattico. Siccome ogni nome fatto da Conte e da Salvini viene categoricamente rifiutato, ora da Letta, ora da Renzi, ora da Tajani e ora da Meloni, quando non anche in splendidi duetti di opposizione che si creano lì per lì, alla fine della giornata qualcuno rimane senza fiato e altri con un pugno di mosche in mano.
Bisogna tenere conto – ammesso che il Parlamento conti qualcosa in questa partita – del quarto voto: 166 voti a Sergio Mattarella sono la luce intermittente di una protesta che non si sa bene se sia pure una proposta. La frattura interna al Movimento 5 Stelle pare quella più grossa e verticaleggiante, anche se gli altri non scherzano affatto in quanto a frapposizioni interne e trasversalmente combinate.
La sofferenza maggiore è per una democrazia parlamentare, per un’etica istituzionale e una laicità repubblicana che sembrano in balia delle correnti, dei veti contrapposti e di una litigiosità che solo l’uomo forte, alla fine, può riuscire a dirimere.
Non c’è, dietro a tutto questo, una macro-intelligenza così arguta da pensare di sfruttare l’occasione per indirizzare il futuro della politica italiana verso un presidenzialismo de facto, da certificare successivamente con una modifica costituzionale de jure, perché a prevalere – proprio in queste ore – sono piccoli mezzucci di bottega, provincialismi particolarissimi che si tentano di incastrare nello schema ben più grande dell’elezione quirinalizia.
Piuttosto, molto più miserabilmente, si naviga a vista, si improvvisa, si utilizza veramente molto poco ogni possibilità data dalla Costituzione per armonizzare il tutto e assegnare ai singoli ruoli la vera parte che gli spetta. La corsa al Colle pare essere diventata una specie di “Wacky Races” (ve lo ricordate lo spassosissimo cartone animato con tutti quegli improbabili corridori?), dove ognuno si comporta secondo regole proprie e non, invece, seguendo un filo minimamente logico, razionale e costituzionale.
L’alterazione delle rispettive funzioni è, pare di capire, ormai entrata nella ciclicità di un endemismo assimilato tanto dal palazzo quanto – per indolente abitudine – dalla popolazione che assiste sciocchizzata a giri di valzer che, probabilmente, persino il cancelliere tedesco von Bülow si sarebbe rifiutato di definire in questo modo.
Proprio perché manca una visione di ampio spettro, mentre il mutare dei nomi e delle posizioni di minuto in minuto ci dice di una situazione molto più trascurata rispetto all’ipotesi della mera impreparazione all’appuntamento del Colle.
Vagheggiato dai cronisti e dai commentatori e data per tale solo a causa della crisi pandemica e della tardiva discesa in campo di Draghi nel discorso di fine 2021, lo spaesamento partitico-politico, che ha travolto i blocchi di centrodestra e centrosinistra, lasciando la palude del Gruppo Misto a fare da spettatrice in attesa di darsi al miglior offerente, è il sintomo ormai evidente di una mancata presa in considerazione dei propri doveri pubblici.
Prima di tutto manca un’etica della politica, un senso del dovere, un rispondere prioritariamente alla disciplina civica, civile e sociale dettata dalla Carta del 1948, anziché ai dettami del liberismo che getta la sua ombra sulle manovre per il Quirinale. E siccome la regia pubblica è soverchiata dall’interesse privato, ne risente per primo il ruolo dei rappresentanti della Nazione che, non rispondendo alle direttive decise comunemente nei loro consessi di partito, finiscono con lo scambiare la scelta opportunistica del darsi all’interesse piuttosto personale con quella di affidarsi nobilmente alla propria coscienza.
Per ripristinare un poco di sana e robusta Costituzione servirebbe un nome che ingannasse queste aspettative e che, facendo confidare tutti nella prosecuzione di uno status quo molto apparente, una volta insediatosi al Quirinale facesse l’esatto opposto: ossia mettere avanti a tutto la difesa della res publica in quanto tale. In quanto cosa veramente pubblica e non privata.
Non succederà, ma se fosse, sarebbe davvero stupefacente e varrebbe la pena di credere che qualche volta i miracoli – soprattutto in politica – possono pure accadere.
MARCO SFERINI
28 gennaio 2022
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