Questa volta Cristo si è fermato a Grodno

Altro che il finto filo spinato dei no-vax italiani: quello arrotolato lungo la frontiera tra Polonia e Bielorussia è vero. Sta lì al limite di una fitta boscaglia, un...

Altro che il finto filo spinato dei no-vax italiani: quello arrotolato lungo la frontiera tra Polonia e Bielorussia è vero. Sta lì al limite di una fitta boscaglia, un po’ come nei film sulla Seconda guerra mondiale, molto simile a quello di Sobibor, di Treblinka, di Belzec: allora rinchiudeva tutte le possibili vittime della macchina sterminatrice nazista, oggi separa due paesi, uno disgraziatamente nell’Unione Europea, l’altro disgraziatamente alleato del sovranismo putiniano.

A leggere e studiare la storia recente di Polonia e Bielorussia c’è da farsi venire i brividi: autoritarismo da una parte e dall’altra, colorato differentemente. Apparentemente sociale dalla parte di Minsk, apparentemente democratico e molto poco europeo dalla parte di Varsavia.

Negli ultimi mesi un gran numero di voli ha trasportato in Bielorussia migliaia di migranti provenienti dalla Turchia, dal Medio Oriente e dalle zone più remote dell’Asia. Sulla pelle dei migranti sono stati commessi sino ad oggi i crimini più orrendi di questo primo ventennio del nuovo secolo: venduti e trattati come schiavi, ridotti allo stato di reietti, defraudati di ogni bene, lasciati a marcire nei lager libici pieni di malattie, di miseria, di fame, di torture, stupri e ogni sorta di violenza. Con una Europa che ha trattato economicamente, pagando fior di quattrini, il loro trattenimento in quei moderni campi di concentramento, luoghi olocaustici da cui fuggire pare impossibile e da cui esci solo se hai ancora soldi da dare agli scafisti e alla polizia corrotta.

La sorte dei migranti che sono volati dall’Anatolia al freddo dei boschi bielorussi, non sembra un destino migliore: spinti dai militari fedeli a Lukashenko verso la frontiera con la Polonia e, qui, respinti dall’esercito di Varsavia, poco davanti a quella lunga bobina srotolata di filo spinato che rievoca il peggiore degli incubi. Bambini, donne, anziani, tutti a crepare di freddo tra due fuochi, pedine di una guerra gelida tra Est ed Ovest, riedizione di una cortina di ferro che cala nuovamente sull’Europa molto vicino a Stettino e a Trieste. Perché l’Europa cosiddetta liberale e democratica non è poi così lontana…

Lo sarebbe già la Polonia, non fosse che in questo momento i rapporti con Bruxelles sono pessimi per via delle politiche per l’appunto illiberali e antidemocratiche del governo di Morawiecki: vergogna dell’Unione che si vorrebbe fondata sulla pluralità e la differenza tra i popoli come ricchezza e dove, invece, la ricchezza vera non sono i valori ma solo le unità monetarie, peraltro molto mal riuscite.

I migranti sono alcune migliaia: quattro, cinquemila. A Grodno, proprio innanzi alla “terra di nessuno” tentano di farsi strada, ma in realtà sono letteralmente in mezzo ad una situazione di stallo. Il dittatore di Minsk li utilizza da molti mesi, fin dall’estate scorsa, per mettere in pratica quelli che vengono definiti “attacchi ibridi“: una guerra non dichiarata all’Occidente, per destabilizzarlo con un ruolo da quinta colonna affidato a della povera gente che diventa, anche in questo caso, materiale umano da sfruttare per spregevoli giochi di potere e tentativi di espansione imperialista che la NATO osserva con grande attenzione.

Come è naturale in questi frangenti, l’offerta dell’Unione Europea di occuparsene con le truppe e gli strumenti di Frontex è respinta al mittente da Varsavia: il governo sovranista, fanaticamente ipercattolico, omofobo e antiabortista non può permettersi di cedere davanti ad una opinione pubblica che lo sostiene con marce “pro-vita” piene di riferimenti simbolici al neonazismo, al peggiore armamentario di destra conservatrice e vandeana. Dall’altra parte del confine che corre tra la vecchia Prussia orientale (avamposto russo in mezzo ad uno schieramento dell’Alleanza atlantica che va dall’Estonia fino alla linea Oder-Neisse) e il voivodato di Lublino, Lukashenko prova a rinsaldare un potere claudicante, sostenuto solo grazie alla presenza russa: militare ed economica, si intende.

Chi vede ancora dei barlumi di socialismo in questo relitto della peggiore socialismo reale che pretenderebbe di proiettarsi nel futuro, nonostante la fine del blocco sovietico ben oltre trent’anni fa, nonostante i rivolgimenti mondialisti e la nuova geopolitica messa in pratica tanto ad Est quanto ad Ovest, fa due volte torto al socialismo e al comunismo: nel credere che quello di ieri lo fosse e nel credere che lo sia rimasto oggi sotto i grandi cappelli militari di Lukashenko e della sua cerchia di corifei.

La durezza di questi regimi, sia che stiano sotto le bandiere putiniane sia sotto quelle dell’Unione Europea, è utile a Mosca ed a Bruxelles per dimostrare che altrove esiste ragionevolezza, capacità diplomatica e voglia di mediazione. Il “cuneo bielorusso” – come lo etichettava molto bene la rivista Limes in alcuni editoriali che si domandavano il tasso di russificazione di Minsk – è una intercapedine enigmatica, perché a tratti occhieggia alle sue spalle, al grande ex impero zarista e sovietico convertitosi al liberismo capitalistico; dall’altro non disdegna di aprire ponti di dialogo con l’Ovest.

Ponti impraticabili, quasi subito chiusi, perché il muro della NATO è militarmente schierato per non far passare alcun sogno di gloria espansionistica per una Russia che ha consolidato un confine in tal senso dalla Lapponia fino ai Dardanelli: il punto frangibile, non ancora sicuro, è rappresentato, più che da Lukashenko, sulla cui fedeltà Putin può contare, dalla crisi ucraina. Mosca ha circondato praticamente Kiev con l’acquisizione della Crimea: un triangolo militare congiunge appunto Sebastopoli alla Trasnistria e questa al Donetsk, dove resiste una popolazione almeno antifascista alle spinte neonaziste di un certo potere che sovrasta il paese un tempo alleato del Terzo Reich contro il “pericolo rosso“.

In mezzo a tutto questo scenario di complicata geopolitica, di strategie e tattiche, di scontri a distanza e battaglie “ibride”, stanno quelle migliaia di migranti al freddo di tende piantate alla bisogna nella terra di nessuno, dove devono rimanere: spinti dai lacrimogeni polacchi a tornare indietro e costretti ad andare avanti dai fucili puntati dai soldati bielorussi. L’immagine è drammaticamente spettacolare: colpisce come un vero e proprio pugno nello stomaco. E’ destinata a diventare un simbolo della sconfitta di una società che giganteggia sui grandi possedimenti petroliferi, sui gasdotti e gli oleodotti, che gareggia sui posizionamenti delle basi nucleari per i sottomarini e quelle della NATO che “proteggono” i paesi amici e affratellati nella moderna civilizzazione occidentale.

C’è spazio in un mondo del genere per l’umanità? Per quel senso di solidarietà comune che dovrebbe scattare nel vedere interi popoli schiacciati dal peso di imperialismi che vengono ritratti dai grandi mass media come normali scaramucce tra stati che hanno enormi “doveri” e che, quindi, ricercano il modo migliore per assolverli? C’è spazio in tutto questo per quei migranti trasportati da una guerra e dalla fame in mezzo ad un’altra guerra non guerreggiata e ad un freddo glaciale da cui non possono ripararsi?

Non c’è spazio alcuni per la dignità, per la vita, per il rispetto dei diritti umani, di quelli sociali e civili. Non esiste una “parte giusta” in queste contese. L’unica parte giusta con cui schierarsi è la sofferenza di chi viene strumentalizzato biecamente, con un cinismo senza pari, utilizzato per vincere un risiko irrisolvibile e diventa il capro espiatorio per scatenare quell’incidente – si badi bene – “diplomatico” che muova la stagnazione di un confine che è molto più di una linea sulle carte geografiche.

Forse Cristo, questa volta, si è fermato lì, davanti ai rotoli di filo spinato: tra il buio del bosco e un pezzetto di pianura verde che presto la neve coprirà col suo gelo.

MARCO SFERINI

9 novembre 2021

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli