Giornali, televisioni e Internet ci sbattono sulla faccia la notizia dell’uccisione del giovane che aveva causato la morte di una donna in un incidente stradale. Una vicenda tragica che avrebbe avuto seguito con le carte processuali e che avrebbe certamente visto una condanna per quanto avvenuto: l’omicidio stradale è un l’inizio della fine, di solito, per due famiglie. Uno schema che si ripete ogni volta che una disgrazia, causata o meno da circostanze tanto o poco differenti, piomba dentro la quotidianità di ciascuno di noi.
Se ne fa, appunto, un gran parlare: il cannibalismo dei mass media è impietoso. Si scaldano le tifoserie anche su Internet, in quel malsano luogo di protagonismo personale che sono diventate le reti sociali: si danno giudizi sulla base spesso di prevenzioni, senza conoscenza dei fatti, per il gusto di contraddire il proprio interlocutore di tastiera. E si crea così una moderna opinione pubblica.
Opinione? Che possa esserlo ho i miei forti dubbi. Che sia pubblica, questo è palese. Fin troppo.
Con questa stessa superficialità di approccio alla condivisione personale e colletiva dei fatti (che dovrebbero sempre avere la “testa dura” e, quindi, poter essere inopinabili), oggi si formano per l’appunto i “sentimenti” delle masse, della gran parte della popolazione.
Se ai tempi di Enzo Tortora ci fosse stata la possibilità di utilizzare Facebook, probabilmente anche in quel clamoroso caso di innocenza, il partito degli accusatori avrebbe fatto la sua parata di parole muscolari e avrebbe sputato sentenze prima della magistratura.
Dunque, la vocazione tutta umana (eppure disumanizzante) di giudicare, di sedere su un trono da cui puntare l’indice accusatorio e valutare la vita di una persona in base a prove falsate o a pregiudizi, senza prestare attenzione al “beneficio del dubbio” invocato anche dal nostro diritto penale, ha radici antiche, non nasce con l’omicidio stradale.
Ma si infiamma facilmente, prende vivo fuoco tra la popolazione di piccolo paese, appunto con fiaccolate, con striscioni che chiedono giustizia e non aiuta un uomo distrutto dal dolore a comprendere quel dolore, ma esacerba i risentimenti, la comprensibile rabbia per la fine della vita della sua compagna. E come aumenta esponenzialmente tutto ciò? Odiando senza appello, senza cercare di attendere i fatti circostanziati fin nel più piccolo centimetro quadrato delle carte processuali che si sarebbero potute leggere ben presto.
Si parla di “giustizia lenta”: ma esiste una differenza tra una immediatezza della giustizia che è la spinta ideale più della vendetta rispetto all’accertamento di dinamiche che non devono penalizzare più del necessario nessuno e nemmeno assolvere più del necessario nessun altro.
La bilancia dovrebbe essere equilibrata e la giustizia cieca. Invece, qui, la cecità è tutta delle nostre comunità, di noi che viviamo stando davanti ad un teleschermo, leggendo giornali pieni di un truce chiacchiericcio intriso di una gelida, ipocrita curiosità per una macabra scia di cronaca nera che fa impressione solo nell’essere sfogliata.
Come è possibile che la spettacolarizzazione del terribile, dell’inguardabile, dell’inascoltabile sia così diffusa?
Passi la descrizione degli eventi. Ma giornali, programmi televisivi e siti web specializzati nel cosiddetto “gossip” di ammazzamenti, tragedie, omicidi, suicidi…
Se si mettesse soltanto un minuto del tempo che centinaia di migliaia di cittadini e cittadine mettono nell’affezionarsi a questo tipo di letteratura, lambiccandosi il cervello come dei novelli Hercule Poirot o miss Marple per cercare la soluzione al delitto A pittusto che alla strage B, in una lettura di ciò che ci accade ogni giorno sul piano economico, lavorativo, politico e anche strettamente culturale, se solo si adoperasse il cervellino per domandarsi come mai si vive in uno stato di miseria diffusa, senza però trovare facili scappatoie e soluzioni prestampate da altro odio per chi non è autoctono o diverso da noi per religione o credo filosofico, allora forse sì che si formerebbe una qualche specie di “opinione pubblica”.
Invece, si pensa di poter parlare di una opinione generale, generalizzata e condivisa solo in presenza di eventi luttuosi dove nascono i partiti della colpa e dell’innocenza perché sono partiti molto facili da creare: basta una simpatia, una sensazione, non serve una grande mente per schierarsi, nemmeno serve leggere documenti di analisi sociale.
Basta guardare negli occhi che compaiono in tv un presunto assassino o una vittima per dire: “Sì, ha la faccia del delinquente”. Quante volte l’abbiamo sentita questa lombrosiana espressione nel corso della nostra esistenza? Vogliamo contarle? Innumerevolmente e negli ambiti sociali più disparati.
Dunque, tutto ciò che crea la gogna è un passo indietro rispetto ai valori di socialità e di civiltà che ci siamo guadagnati nel dopoguerra con quella Costituzione così poco conosciuta e che dovrebbe essere letta al posto delle riviste di cronaca nera e giallismo da quattro spiccioli.
Non voglio fare analisi sociologiche: non ne sarei in grado. Ma penso di poter dire, molto sommessamente e con sincerità, che abbiamo (che hanno…) bisogno di tutto questo nero cronachistico, di questa partigianeria opposta di sentimenti per sopperire alle proprie disgrazie, al proprio star male in un contesto in cui non si percepisce miglioramento alcuno, dove la Repubblica (quindi le istituzioni che dovrebbero essere vicine ai cittadini nei momenti più difficili) non riesce a creare momenti di condivisione, di socialità anche del dolore senza questi eccessi di protagonismo mediatico delle folle.
Qualche giornale ha titolato: “Delitto e castigo”, emulando il romanzo di Dostoevskij e rasentando veramente il cattivo gusto ma, forse inconsapevolmente, richiamando la solitudine del senso di colpa di Rodion Romanovič Raskol’nikov da un lato e il superomismo dall’altro. Manca una Sonja che riscatti tutto questo dolore, tutta questa infelicità e chiusura dell’animo dentro ai più reconditi pensieri, in un turbinare di sensi di colpa ormai da entrambe le parti. Sempre che di “parti” si possa parlare…
Una persona felice, o comunque tendente ad essere tale, vorrebbe davvero trovarsi immersa in una trincea di truculenza, di feralità così marcatamente studiata per essere attrattiva e coinvolgente al punto tale da essere seguita come una telenovela dal sapore macabro?
L’infelicità è il demone nascosto di interi paesi, di una Italia che sfoga le sue rabbie sulle disgrazie altrui e finge, spesso, di appassionarsi alla causa della giustizia nel solo provare odio per l’imputato. A prescindere. Senza attendere la giustizia che, oltre alla cecità, acquisisce anche la sordità. Le troppe urla forcaiole dei presunti cittadini democratici distruggerebbero la tromba di Eustachio di chiunque…
MARCO SFERINI
4 febbraio 2017
foto tratta da Pixabay