In un passante cruciale della storia europea la presidente del Consiglio di un Paese fondatore della Ue ne ha pubblicamente disconosciuto, in Parlamento, la genesi. L’attacco scomposto e gesticolante di Meloni al Manifesto di Ventotene ha ricollocato, per un istante astorico, l’Italia dalla parte politica (il fascismo) che gli autori di quel testo del 1941 aveva arrestato e confinato su quell’isola. Non è stato un insulto ai padri costituenti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e nemmeno un dileggio al comandante partigiano Eugenio Colorni assassinato a Roma mentre combatteva per liberare la città da nazisti e collaborazionisti repubblichini.
È un turpiloquio rivolto alla storia d’Italia nell’anno dell’ottantesimo anniversario della sua Liberazione. Una ingiuria che avrebbe meritato lo spazio consentito, solo grazie alla democrazia, a quella ridotta numerico parlamentare che nel 1962 Aldo Moro identificava nel Msi come «riferimento ideale e storico del fascismo». Pronunciando con voce solenne «questa non è certamente la mia Europa» Giorgia Meloni avrà probabilmente rivolto il pensiero ai padri politici da cui discende, Almirante e Rauti, immaginandoli soddisfatti dalle parole pronunciate dalla loro erede.
In questo modo al suo profilo di inadeguatezza governativa va ad aggiungersi l’emersione in superficie delle viscere postfasciste che non hanno mai smesso di rappresentare il nucleo identitario dell’estrema destra di genìa missina.
La deformazione dei brani estrapolati dal Manifesto rappresentano allo stesso tempo un piccolo espediente di bassa retorica e un grande esempio della vasta sproporzione esistente tra il minuto profilo di chi governa e la grande eredità della Repubblica nata dalla e nella Resistenza e prima ancora nelle carceri e in quel confino a Ventotene da cui uscì, tra i tanti, uno tra i più degni suoi rappresentanti: il Presidente Sandro Pertini.
Così il passaggio citato da Meloni «la rivoluzione europea dovrà essere socialista» resta monco tanto dell’incipit «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria al potenziamento della civiltà moderna di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto» quanto dell’obiettivo finale «l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane». Che, se ne deduce, Meloni non ricerca.
La presidente postmissina anziché scandalizzarsi perché «nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente» dovrebbe studiare e recuperare evidenti lacune. La democrazia liberale con la sua crisi aveva spalancato le porte al fascismo e, dunque, nei progetti dei costituenti non poteva che essere immaginata una democrazia nuova e appunto «rivoluzionaria», fondata sul superamento di una «metodologia democratica» propria dello stato pre-fascista e centrata sull’uguaglianza di donne e uomini, sulla giustizia sociale ed il lavoro, sull’emancipazione delle classi popolari.
Sarebbe stato sufficiente, per Meloni, leggere almeno gli articoli 1 e 3 della Costituzione su cui ha giurato. Soffermandosi sulla proprietà privata il testo specifica non solo una critica al sistema dell’Urss, dove la popolazione è stata «asservita» a una «ristretta classe di burocrati gestori dell’economia», ma delinea la cornice dell’articolo 42 della Carta del 1948. La proprietà privata che deve essere «abolita, limitata, corretta e estesa caso per caso» è la stessa che nel vissuto di Spinelli, Rossi, Colorni e di tutto il mondo antifascista determinò gli assetti storici su cui il regime di Mussolini nacque e si consolidò.
Infine, l’attacco alla «dittatura del partito rivoluzionario» attorno a cui «si forma il nuovo Stato e la nuova vera democrazia» sembra rappresentare ancora una volta l’insuperabile sindrome degli sconfitti della storia. Quel «partito», nel fuoco della guerra mondiale, non si identificò in un modello unico ma nella pluralità dell’antifascismo, dei Cln, del Corpo volontari della libertà. In quel soggetto diversificato e collettivo rappresentato dai dirigenti (comunisti, socialisti, cattolici, liberali) che sfilarono per le strade della Milano liberata ottanta anni fa.
Ascoltando Meloni torna alla mente l’epigrafe che nel 1953 Piero Calamandrei dedicò ai caduti della Resistenza dopo la formazione in Parlamento del gruppo del Msi: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano ove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue sono tornati da remote caligini i fantasmi della vergogna. Troppo presto li avevamo dimenticati. È bene che siano esposti perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».
DAVIDE CONTI
foto: screenshot tv