In Italia la modernizzazione è un fatto compiuto, esattamente come la “rivoluzione futurista” di marinettiana memoria. Dopo aver gettato a mare qualsiasi ipotesi di pensiero critico attraverso vent’anni di berlusconismo, ossia di egemonia delle classi dominanti in salsa italica, la piccola borghesia italiana, rimasta orfana della DC e persa la possibilità di ottenere profitti e potere a seguito della globalizzazione e dell’introduzione dell’euro che bloccava qualsiasi ipotesi di svalutazione competitiva, si è ricompattata negli ultimi anni attorno ad un nuovo progetto conservatore il quale, liberatosi degli epifenomeni più marcatamente reazionari e populisti (l’eterna coazione a ripetere del sovversivismo delle classi dirigenti; l’asso nella manica della camicia nera sempre pronto ad essere estratto contro le “classi pericolose”), è giunta ad allearsi nuovamente con il grande capitalismo, seppur nella versione provinciale propria di una potenza regionale in declino come l’Italia.
In questo senso, il Governo Monti, lungi dal costituire una “parentesi”, come sostenne invece Bersani credendosi Benedetto Croce, ha un carattere costituente: esso tenta infatti di rifondareun blocco sociale che, nel nome dell’ideologia delle “riforme necessarie al Paese” (leggasi: trasferimento di sempre maggiori quote di reddito dal lavoro al capitale, non fossero bastati quei venti punti di PIL magicamente entrati nelle tasche delle classi dominanti dal 1990 al 2010), si compatta su poche idee e per nulla confuse: privatizzazione completa dei servizi, omogeneizzazione della politica entro una sintesi bipolare ad usum principis, “sobrietà” catoniana come ideologia e “credibilità internazionale” come propaganda al fine di acquisire consensi anche in quei settori ormai totalmente deideologizzati di elettorato rappresentato dal “ceto medio riflessivo” del centrosinistra. Se partiamo da questi dati, per così dire , sovrastrutturali e cerchiamo di cogliere i nessi reali, immanenti, che legano fra loro i fenomeni ideologici cui tali dati afferiscono, non possiamo non cogliere nella “liquidità” dei rapporti sociali la dura materialità di rapporti di produzione sempre più cristallizzati: il cosiddetto impoverimento di larghi settori sociali, unito ad una disoccupazione – elemento strutturale nelle società capitalistiche- divenuta cifra generazionale e leva perenne di ricatto padronale.
“Toccate tutto ma non i rapporti di produzione”. Questo sembra dirci l’involuzione culturale, ancor prima che politica, del dibattito politico italiano, nel quale ad una contrapposizione di facciata, utile a moltiplicare i consensi del pensiero unico, fa da contraltare un’unanimità totalizzante a difesa dell’iperuranio dei Mercati, indiscutibili ed intangibili, quando non nominabili come Dio e il nome segreto di Roma. Unanimità che impedisce di mettere in discussione trattati europei imposti manu mercantili in Costituzione (un pareggio di bilancio che, di fatto, dichiara anticostituzionali tutte le scuole economiche non liberiste) o votati nel silenzio dei media da un Parlamento estivo che, abbagliato da un’idea ancillare del governo, impone per vent’anni più di ottocento miliardi di euro di tagli, ossia la sostanziale messa in mora di qualsiasi forma di distribuzione,contratto sociale e convivenza civile.
“Chi vuole mettere in discussione l’affidabilità del Paese è un populista!” , tuonano ogni giorno le anime non tanto candide del conformismo a mezzo stampa, tentando di mettere in un angolo tutte le voci critiche che negli ultimi anni hanno visto svilupparsi forti movimenti di base, spesso repressi non soltanto a parole. In tal senso, quando Monti e Bersani dicono che il primo obiettivo è opporsi al populismo, a loro modo dicono il vero: primo obiettivo della Terza Repubblica fondata sui Mercati è infatti “silenziare” (op.Cit) coloro i quali, mettendo in discussione l’immanente disvelarsi dei rapporti di produzione, siano il TAV o il Fiscal Compact o la chiusura di un ospedale di periferia, rischiano di coalizzare in un’egemonia di pensiero alternativa a quello dominante una serie di forze e settori sociali che, al massimo, possono avere il diritto di tribuna, quantomeno sino a quando una nuova Costituzione octroyé non li ridurrà al silenzio.
Ai poteri economici, tanto invisibili quanto concreti nella loro azione di erosione del reddito e della qualità della vita di milioni di persone, occorre consenso, conformismo, controllo della formazione delle opinioni, e dunque bipolarismo, riforme elettorali fortemente maggioritarie, giornalismo “embedded”, scuole ed università con programmi semplificati ed adattati secondo moduli e non secondo discipline, lavoratori flessibili, ossia dequalificati, di bassa formazione culturale e nulla formazione politica, armi di distrazione di massa di vario tipo, dalle case da gioco agli spettacoli del sabato sera, alla mercificazione della sessualità ridotta a divertissement senza orizzonte. Ad essi occorre soprattutto “senso di responsabilità”, ossia capacità di aderire ai responsi oracolari di un sistema che, conscio dei limiti ecologici del proprio sviluppo, si dibatte fra crisi economiche, climatiche e guerre regionali per le materie prime al solo fine di sopravvivere ancora qualche secolo facendo tornare indietro di qualche secolo il Pianeta.
ENNIO CIRNIGLIARO
redazionale