Ci sono voluti due anni di indagini e un rapporto finale di oltre 900 pagine per capire che il 6 gennaio 2021 a Washington non era stato il più grande spettacolo del mondo, una performance politica che faceva impallidire il Cirque du Soleil a beneficio delle folle di tutto il pianeta.
No, si trattava proprio di un golpe. L’assalto al Campidoglio, la sede del parlamento americano, era vero, era stato preparato da mesi, aveva obiettivi precisi, interrompendo la sessione che doveva ratificare il voto dei delegati dei 50 stati per il candidato democratico Joe Biden, secondo la Costituzione una procedura esclusivamente notarile.
Trump e i suoi sapevano benissimo di mentire quando sostenevano che le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 erano state “rubate” dai democratici. Durante le audizioni, la Commissione di indagine della Camera ha fatto ascoltare la telefonata di Trump al segretario di stato della Georgia con cui gli chiedeva di “trovare 11.000 voti” per rovesciare l’esito dell’elezione in quello stato e di attribuire a lui i delegati nel collegio elettorale che invece erano andati a Joe Biden.
L’assalto del 6 gennaio non aveva nulla di spontaneo: gli autobus erano arrivati da tutta l’America e lo stesso presidente aveva dato l’ordine di marciare lungo Pennsylvania Avenue, la strada che collega la Casa Bianca con la sede del Congresso.
Insomma, era un colpo di stato, diretto dal presidente in carica, che avrebbe anche voluto essere presente tra i manifestanti: come ha testimoniato una giovane funzionaria della Casa Bianca, Cassidy Hutchinson, Trump scatenò una lite furiosa con il suo autista per farsi portare al Campidoglio, dove i suoi sostenitori, molti dei quali armati, stavano travolgendo le esigue forze di polizia presenti e sfondando le porte.
Un’agente, Caroline Edwards, (ferita alla testa durante gli scontri) ha raccontato alla Commissione di indagine di essersi trovata in mezzo a poliziotti feriti, a terra, e di essere “scivolata sul sangue” che scorreva sul pavimento, mentre tentava di difendere deputati e senatori.
Le immagini frammentarie, trasmesse in diretta dalle televisioni, due anni fa, non si accordavano con l’idea mentale che abbiamo dei colpi di stato: ci scorrono davanti agli occhi carri armati nelle strade, militari che si impadroniscono delle comunicazioni, posti di blocco con le mitragliatrici.
Il 6 gennaio 2020, invece, avevamo visto bizzarri personaggi che si facevano i selfie nell’ufficio della speaker della Camera Nancy Pelosi oppure si affrettavano verso l’uscita con un leggìo come souvenir del saccheggio. In mezzo a loro, giornalisti che fotografavano, poliziotti senza manganelli e funzionari con la mascherina che restavano al loro posto. Solo di sfuggita si era visto un cartello Hang Mike Pence, “Impiccate Mike Pence”, il vicepresidente, e sentito i rivoltosi che scandivano lo stesso slogan.
Mike Pence era una figura chiave in ciò che stata accadendo: per dare una vernice di legalità al colpo di stato, il presidente in carica e i suoi complici volevano che Pence rifiutasse di accettare i voti dei delegati di alcuni stati, quelli dove il margine tra i suffragi ricevuti da Biden e quelli ricevuti da Trump era minimo, chiedendo agli stati di accertare se non c’erano stati brogli.
In questo modo il processo di certificazione sarebbe stato bloccato e i repubblicani che controllavano i parlamenti degli stati in Wisconsin, Pennsylvania, Georgia e Arizona sarebbero stati ben felici di nominare dei delegati alternativi che avrebbero votato per Trump, rovesciando il voto popolare (l’elezione del presidente degli Stati Uniti, contrariamente a quanto si crede, non è diretta ma dipende da un collegio elettorale composto appunto dai delegati dei 50 stati).
Tutto questo era illegale, naturalmente, ma avrebbe potuto funzionare. Le pressioni e le minacce su Pence avrebbero potuto ottenere il risultato voluto, creando a Washington una crisi costituzionale mai vista nei 233 anni di storia della repubblica, con l’eccezione della secessione di 11 stati sudisti, nel 1861, a cui era seguita la guerra civile.
La società dello spettacolo ci ha abituato a ogni sorpresa, basti vedere le votazioni a vuoto per l’elezione del nuovo speaker della Camera in questi giorni, ma ci ha anche anestetizzato rispetto alla dimensione violenta del potere.
Ci si dimentica spesso che Mussolini e Hitler avevano un loro lato buffonesco: la mascella sporta in avanti del Duce, le sue esibizioni dal balcone di palazzo Venezia a Roma, oppure le performance di Hitler nelle coreografie naziste disegnate dalla regista Leni Riefenstahl oggi sono oggetto di curiosità e fanno sorridere.
Ma nell’ascesa e nella permanenza al potere dei due dittatori avevano avuto un ruolo importante. Per quattro anni Trump è stato trattato con indulgenza dai mass media americani che sono un po’ usciti dal loro letargo solo dopo l’assalto del 6 gennaio 2021 e dopo le mille prove del suo ruolo rese pubbliche dalla Commissione.
La domanda che tutti si pongono, oggi, è se il gangster che ha occupato la Casa Bianca per quattro anni e vuole addirittura ricandidarsi alle presidenziali del 2024 verrà processato o no. Una questione tutt’altro che semplice perché negli Stati Uniti l’azione penale è discrezionale, come il governo Meloni vorrebbe fosse anche in Italia.
Ma “discrezionale” significa che il Procuratore generale Merrick Garland potrebbe decidere di non agire contro Trump se considerasse la cosa politicamente pericolosa, o semplicemente inopportuna. Invece di processarlo per tradimento potrebbe decidere di rinviarlo a giudizio solo per reati minori, oppure limitarsi a chiedere a un tribunale di escluderlo a vita dalle cariche pubbliche, come il XIV emendamento della costituzione consente di fare.
Dal 1787 ad oggi c’è stato un solo caso in cui si è tenuto un processo per tradimento contro un’alta carica dello stato: nel 1809 l’ex vicepresidente Aaron Burr, che aveva trescato con gli spagnoli per crearsi un proprio feudo personale nel Sudovest, reclutando anche un piccolo esercito personale, venne arrestato.
La sua condotta fu giudicata ambigua ma non sufficiente per condannarlo in base ai criteri molto rigorosi espressi nella costituzione e fu assolto. È perfettamente possibile che anche nel caso di Trump le cose vadano nello stesso modo.
FABRIZIO TONELLO
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