Non sarà una Nadef qualunque, o quantomeno non dovrebbe esserlo. Non solo perché presenta un orizzonte ben più esteso di quello solito, spingendosi fino al 2026, ma perché ha a che fare, per usare le parole del ministro Gualtieri (nella sostanza ribadite nell’audizione parlamentare), con “la peggiore caduta del Pil della storia repubblicana”, e perché si misura con l’utilizzo delle risorse messe a disposizione dalla Ue. Non è la prima volta che una Nota assume più importanza dei documenti cui si riferisce.
Basta ricordare la centralità che assunse nel dibattito politico-economico di allora la celebre Nota aggiuntiva del maggio del 1962 di Ugo La Malfa. Solo che qui la qualità è assai differente. Non c’è quindi da stupirsi se malgrado le critiche che il Presidente della Confindustria ha rivolto al governo, il suo incontro con Gualtieri alla recente presentazione del Rapporto del Centro studi Confindustria non sia finito in baruffa. Anzi il ministro ha sottolineato la sintonia del Rapporto con il quadro tracciato nella Nadef e gli indirizzi da dare al Recovery Plan. In realtà il testo confindustriale contiene previsioni più pessimistiche di quelle esposte lungo le 134 pagine della Nota di Aggiornamento.
Per Confindustria il calo del Pil nel 2020 sarà pari a -10% (per la Nadef -9%, mentre Bankitalia sta nel mezzo: -9,5%). Il Fondo monetario internazionale, nel suo recentissimo rapporto, ha stimato per l’Italia una contrazione del 10,6%, meglio del precedente -12,8%. Il governo assicura un rimbalzo del 6% nel 2021, per Confindustria solo un +4,8%.
Il che comporta 410mila occupati in meno quest’anno che nel 2021 non verranno recuperati (-230mila occupati), mentre Gualtieri, nella Nota, legge quei dati in modo capovolto: “a fronte di un crollo del Pil stimato al 9% nel 2020 l’occupazione è prevista ridursi di meno del 2%”. Peccato che fosse già bassa prima, ma al Governo interessa magnificare le misure introdotte che avrebbero “limitato l’aumento della povertà e delle diseguaglianze” cosa di cui è difficile convincersi.
Ma sia il governo che Confindustria concordano sulla necessità di cambiare “paradigma”. Termine quanto mai abusato. Thomas Kuhn lo definiva una “costellazione di credenze, di valori, di tecniche e di impegni collettivi condivisi… fondata in particolare su un insieme di modelli di assiomi e di esempi comuni”. Non a caso parlava di rivoluzioni, anche se scientifiche.
Al contrario Confindustria vuole tornare a peggio di prima, svilendo i contratti nazionali di lavoro, sostenendo che gli aumenti salariali non possono superare un’inflazione quasi assente (per la Nadef nel 2020 si attesterà allo 0,8% e scenderà allo 0,5% nel 2021) e puntando sulla precarietà del lavoro. Il governo intende muoversi, per l’utilizzo dei fondi dell’Unione europea, lungo sei direttrici: digitalizzazione, transizione ecologica, mobilità sul territorio, istruzione, equità sociale, salute.
Come si vede siamo nell’ovvio per un verso e per un altro si rilanciano progetti di vecchia data, appena adattati alle nuove linee guida. Mentre la riforma fiscale è rimandata a una legge delega e sarebbe auspicabile si ascoltasse lo stesso Fondo Monetario Internazionale che raccomanda di alzare in maniera progressiva le tasse “sugli individui più ricchi”. Il cambio di paradigma può venire solo da un radicale mutamento dei fondamenti economici, quelli delle teorie del “Nuovo Consenso”, per cui è il mercato l’elemento equilibratore non la politica economica. Si fa spesso il paragone con il dopoguerra.
Ebbene in quegli anni si accese un dibattito sul concetto di programmazione proprio per utilizzare i fondi del piano Marshall. Vinse la posizione che puntava sullo sviluppo naturale dei mercati, come ricordò Pasquale Saraceno. Ma ciò non toglie che il tema della programmazione va riproposto con forza. Certo non costruita a tavolino ma mettendo in moto centri intellettuali e parti sociali, il sindacato in primo luogo, senza scambiare ciò con il soffocamento del conflitto che invece è proprio una molla di una innovazione che risponda ai nuovi bisogni. Non se ne esce senza un intervento pubblico diretto in economia, su cui si esprime favorevolmente anche il Fmi.
Dal canto suo Fabrizio Palermo, l’Ad della Cassa Depositi e Prestiti sostiene che basta un “capitalismo paziente”: una contraddizione in termini. Il Sud, non solo le coste ma le zone interne, è un problema europeo e quindi il primo destinatario dei fondi dell’Unione europea, come insiste Adriano Giannola presidente della Svimez.
Il tutto in un quadro europeo. Quindi il patto di stabilità e tutti i suoi derivati sono da cancellare, non solo da sospendere (come si limita a suggerire il Fondo Monetario Internazionale). L’obiettivo deve essere la piena occupazione, tutt’altro che incompatibile con un reddito di cittadinanza, e non il tasso di inflazione, come oramai ci insegna anche la Federal Reserve.
ALFONSO GIANNI
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