In parte sarà anche per via dell’approvazione della nuova legge elettorale, ma è fuori di dubbio che, certamente anche per altri fattori, in questi giorni sta prendendo piede una nuova modulazione di rapporti interni sia al Partito democratico sia in ciò che rimane del mondo progressista riformista e di piccole colonie di varia tinta politica.
Le elezioni siciliane del prossimo 5 novembre determineranno un nuovo punto di osservazione in merito e saranno l’occasione che, a seconda del risultato, consentirà ai novelli critici del renzismo di uscire ancora di più allo scoperto o di adottare nuove tattiche per rassicurare i mercati e le borse sul semplicissimo fatto che è ancora possibile fidarsi del PD e di una ricostruibile coalizione di centrosinistra (usando le parole del ministro della cultura Franceschini) per affrontare il voto in primavera.
Sostengono infatti i critici renziani, fino a ieri (o quasi) renzianissimi, che l’assemblaggio delle forze del centrodestra è pressoché fatto: sì, ci saranno alcune tematiche da definire, alcuni rapporti interni da calibrare meglio, ma la duttile capacità di adattamento del settore berlusconiano – salviniano è sicuramente più concreta, pragmatica di quella del mondo politico costruito da Renzi.
Il segretario del PD ha per troppo tempo contato su carisma personale che gli ha consentito di costruire una unità monolitica che era ambivalente: dal partito al governo, quando ancora lui ne era presidente del consiglio dei ministri, la cinghia di trasmissione funzionava perfettamente.
Poi sono comparse le prime fratture, i primi reumatismi istituzionali e politici: dalle banche al referendum del dicembre 2016, le dimissioni da Palazzo Chigi e la ricerca di una ritrovata verginità politica per rassicurare la borghesia imprenditoriale italiana e i circoli del potere economico di Bruxelles che lui sarebbe potuto tornare in sella per guidare nuovamente il Paese dopo la “parentesi Gentiloni”.
Due stili completamente diversi si sono scontrati in silenzio nei mesi scorsi e oggi rimettono in campo la tenzone con un rumore maggiore di sciabole: perché non è tollerabile per un governo liberista che è meno spregiudicato di quello precedente (pur essendone praticamente la fotocopia… ma a volte la differenza può farla proprio il capo del governo…) il mettere in discussione Vincenzo Visco alla guida della Banca d’Italia sulla base di critiche che sembrano derivare non da una stigmatizzazione dell’operato del governatore bensì da una interpretazione del suo lavoro troppo di parte, legata a vicende recentemente passate e che hanno interessato settori del governo precedente.
Si potrebbe osservare che oltre a due stili diversi espressi nella funzione istituzionale, anche sul piano meramente politico Gentiloni ha quella pacatezza formale che serve a rassicurare proprio chi nell’ex sindaco di Firenze vede ormai un cavallo che non può più correre. Un cavallo forte ma azzoppato da troppi inciampi sul percorso di gara.
Anche il più sprovveduto tra gli osservatori del panorama politico avrà notato che le critiche esistono e si sommano di giorno in giorno: tralasciando le scissioni di Mdp e i tentativi di ricucitura o di dialogo, quando Napolitano, dopo le osservazioni negative sulla legge elettorale, passa a criticare fortemente l’impeto con cui si voleva liquidare Vincenzo Visco, è palese il disappunto verso Renzi.
Le dimissioni dal gruppo del PD del Presidente del Senato della Repubblica sono l’ultima tegola caduta: l’ultima di una serie di allontanamenti, di prese di posizione e di separazioni non consensuali che non sono soltanto subite dai democratici ma, prima di tutto, da chi li rappresenta.
E’ presto per dire se il renzismo sia una pagina del nostro passato o possa emulare il berlusconismo nel divenire una Araba Fenice pronta ad incenerirsi e a risorgere ogni volta dalle proprie ceneri.
Ma non è presto per affermare che la sicumera di un tempo è una “virtù” su cui Renzi non può più contare: deve scendere a patti se vuole avere qualche possibilità d’essere il leader di una coalizione che provi a mostrarsi alternativa al centrodestra e al grillismo.
Non è semplice smettere i panni di una delle tre destre del Paese e ridiventare umilmente una specie di centrosinistra di nuovo modello. E’ forse una impresa impossibile perché nessun modello “stile-l’Unione”, così richiamato da Franceschini in queste ore, è pensabile con l’attuale assetto geopolitico in cui versa il Paese.
Ma soprattutto, la centralità assoluta del PD non sembra essere in discussione: i vecchi sostenitori del renzismo sono pronti a mettere in discussione Renzi ma non sono pronti affatto ad un bagno di umiltà che porti il PD a ragionare come forza politica pari tra i pari.
Del resto, essendo il secondo partito del Paese (stando sempre alle ipotetiche cifre dei sondaggi), qualche ragione può anche accamparla per dirsi in diritto di rappresentare qualcosa di più rispetto ad Mdp, costretta a correre verso il PD da un Rosatellum che impone le alleanze.
Non c’è nessun progetto sociale per un Paese impoverito in questa contesa tra visioni diverse di difesa del liberismo e di mantenimento degli equilibri economico-politici che durano da lustri e lustri. Cambiano i rappresentanti di un potere governativo che non ha nessuna intenzione di spostare la sua attenzione sui bisogni dei più deboli di questa società, economicamente ed anche moralmente parlando.
Per questo non si può attendere che le cose prendano una piega diversa, non si può stare al parapetto di nessuna finestra ad osservare il corso degli eventi: bisogna mettere in fretta in moto il processo di definizione di un progetto sociale radicalmente alternativo alle destre classiche ed a quelle nuove, ammantate di veli per apparire in una diversità. Non certo per esserla.
MARCO SFERINI
27 ottobre 2017
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