Incuriosito dalla notizia, ammesso che possa essere considerata una notizia l’ennesima verifica della molto poca conoscenza della storia recente del nostro Paese, ho guardato il video de la Repubblica per ascoltare domande e risposte sul 12 dicembre 1969.
Confesso che non mi ha particolarmente stupito che gli studenti di appena venti anni non ricordassero nell’immediatezza, con un quesito posto senza indizi se non la data stessa dell’attentato, ciò che all’epoca era accaduto in piazza Fontana a Milano.
Ho trovato nella mia mente però, quasi subito, un elemento di accusa: nemmeno io ero nato nel 1969, eppure alla loro età conoscevo bene gli avvenimenti intercorsi dal 1946 in poi, in quell’epoca nuova aperta dalla Repubblica e dalla Costituzione.
Poi, interpretando insieme il ruolo dell’accusa e della difesa a fasi alterne, mi sono detto che in fondo era già molto se al secondo intervento del giornalista, questi ragazzi erano riusciti a collegare la data ad un attentato.
Il problema riguardante una memoria storica necessaria, almeno sufficientemente tale, è arrivato quando l’episodio che vide la strage della Banca dell’Agricoltura e la tragica fine di Giuseppe Pinelli non è stato inserito dentro al contesto della “Strategia della tensione”.
Chi ha avuto più buona creanza ha taciuto e ha dato un po’ di dignità alla vergogna; chi, invece, ha cercato di dare una spiegazione degna dello studente delle medie che non sa affatto come uscire dal guaio di una interrogazione che sa persa in partenza, ha vagato per universi paralleli e non si è nemmeno avvicinato un poco alla verità dei fatti, alla concretezza della storia.
Stesso discorso per chi ha pensato che l’attentato fosse stato opera delle Brigate Rosse. Ciò significa non tanto non avere a mente che a Milano quel 12 dicembre accadde qualcosa di davvero destabilizzante per la democrazia repubblicana, ma significa ignorare un intero periodo di storia italiana in cui si intrecciano le vicende più oscure che hanno messo in pericolo la tenuta dei valori espressi dalla Carta costituzionale.
Stiamo parlando di studentesse e di studenti universitari che si vorrebbero un po’ avvezzi alla ricerca, quanto meno ad una conoscenza di base dei passaggi fondamentali che ci hanno portato dal dopoguerra ad oggi.
Ma è proprio questo il punto: la storia nella scuola moderna termina appena con la fine della Seconda guerra mondiale. il che significa che termina esattamente, nell’insegnamento e nell’apprendimento, quando veniva fatta terminare in quelli che posso ormai definire “i miei tempi”: noi generazioni nate negli anni ’70 avevamo una sorta di giustificazione nel conoscere i fatti d’Italia, d’Europa e del mondo fino alla fine del secondo conflitto planetario. Del resto, ci separavano dalla sua terminazione appena trent’anni.
Gli atlanti storici dovevano essere ancora aggiornati con le nuove guerre sparse per il mondo. Sfogliandoli si faceva appena in tempo a scorgere la guerra di Corea e qualche conflitto arabo-israeliano. Il resto era “attualità”, quindi andava oltre la contemporaneità della storia stessa: il presente, per sua stessa definizione cronologica, non può essere storicizzato. Bisogna attendere un po’ di tempo, per l’appunto, affinché si possano comprendere e studiare scientificamente – con metodo storiografico – i fatti che si avvicendano.
Ma queste ragazze e questi ragazzi d’ateneo quali colpe hanno? E’ possibile attribuire a loro soltanto la responsabilità di una destrutturazione della memoria che deve, per forza, essere fatta risalire ad un connubio tra conoscenze di derivazione scolastica e conoscenze di derivazione extra-scolastica?
Indubbiamente il bagaglio di cultura che ciascuno di noi si porta dietro è di propria responsabilità: croce e delizia di un lavoro costante di informazione che se viene assimilata con spontaneità è un prezioso angolo di sapere; se, invece, viene allocata nelle menti con forzature e coercizioni o, peggio ancora, viene enunciata con brevi cenni, facendo intendere senza far capire, allora è un intero sistema scolastico e sociale che deve essere messo sotto accusa per l’incapacità di perpetuare la memoria di una storia recente senza la quale è praticamente impossibile avere le chiavi per aprirsi la strada alla comprensione di ciò che avviene oggi.
Certo che ci deve sempre stupire e far sobbalzare sulla sedia una serie di risposte abbozzate o di sguardi allampati davanti al chiarore delle telecamere.
Ma tutto ciò ci parla di un sempre maggiore aspetto seduttivo da parte del sistema capitalistico che allontana i cittadini dalla voglia di sapere, dall’amore per il conoscere e li relega nel ruolo di consumatori e fruitori della mera quotidianità.
Il passato è passato e il futuro è inconoscibile. Ciò che conta è, dunque, soltanto il presente. In un ambito psicoanalitico è accettabile questa tripartizione degli istanti di vita, persino terapeutica; ma quando si tratta di diventare consapevolmente attori di un determinato contesto dell’attualità, essere all’oscuro dei passaggi storici è tremendamente pericoloso. Espone al rischio di quella “ripetizione degli errori” che gli antichi attribuivano proprio alla mancata conoscenza del passato del loro Paese.
Così, lo studio viene finalizzato, invece che alla voglia di sapere, alla ricerca di una occupazione in questa desolazione fatta di disperazione per l’impossibilità di scorgere un benché minimo lembo di futuro sostenibile con un’occupazione precaria, sognando quel posto fisso che, richiamato da noi comunisti in tempi recentemente passati, oggi torna ad essere una rivendicazione possibile.
Cominciare ad essere consci che si può cambiare partendo dal sovvertimento delle parole d’ordine del mercato è già un punto di appoggio per sviluppare una bellissima abitudine: dubitare per sapere, sapere per prevalere su chi già sa e, come Gramsci giustamente sosteneva, vince proprio perché ha questa abilità. Non è una esclusiva dei ricchi anche se i ricchi fanno di tutto per far sì che sia così. Il ruolo di classe del sistema scolastico può essere capovolto.
Ci si può istruire e si può apprendere anche se si hanno pochi mezzi. Forse, uno dei compiti dell’intero movimento comunista in diaspora oggi è anche questo: sostenere chi ha voglia di sapere, alimentare la curiosità ed essere politicamente impegnati in una azione pedagogica che non può essere scissa dall’azione complessiva per il cambiamento sociale.
MARCO SFERINI
13 dicembre 2017
foto tratta da Wikipedia