Queer

Il caldo del Messico è lenitivo, attenua gli affanni del passaggio di confine, della vita che ci si lascia alle spalle in un vorticoso turbinio di eccessi, di immoralità,...

Il caldo del Messico è lenitivo, attenua gli affanni del passaggio di confine, della vita che ci si lascia alle spalle in un vorticoso turbinio di eccessi, di immoralità, di passioni non attenuate che seguitano la persecuzione del corpo e dell’animo. Ma il caldo del Messico è anche opprimente: ha un qualcosa di apatico e di funereo al tempo stesso. È la trasposizione fenomenologica della siesta, della tranquillità che precede la morte o del riposo che sentenzia come l’ozio sia tutt’altro che il padre dei vizi.

Dentro al non fare c’è tutto un mondo di sensazioni che si percuotono, che non ti lasciano mai davvero riposare in pace. Lo stato della tranquillità è qualcosa di insperato, di esasperante, di inseguito e mai raggiunto. William Lee, che di William S. Burroughs è quello che si può definire l'”alter ego“, è trapassato nel presente da tutte queste incoscienze, rimorsi e desideri che lo inducono a non smettere mai. Di bere, di drogarsi, di cercare altri uomini da possedere e con cui, sostanzialmente, fare quasi meccanicamente solo del sesso.

Queer” (Adelphi, 2013) è l’opera che la censura, qualche decennio fa, prediligeva per erigere il muro dell’invisibilità attorno alle parole e alle immagini che esse descrivono e che sono diverse ad ogni riga e che, dopo ancora, lo sono di più: non si vede mai la fine dell’osceno, di ciò che esce dalla scena e che, quindi, è a prescindere dal pubblico una storia di cui tutti e nessuno hanno bisogno. Burroughs dirà sempre che è stata la scrittura a scrivere lui stesso e non il contrario. Non si tratta di una autobiografia, ma ci va molto, molto vicino.

Amico di Kerouc, figlio e profeta della beat generation, il William scrittore è quindi il William del libro, inevitabilmente: entrambi sono lontani da una borghesissima, conformista voglia di redenzione dal peccato, dalla sopravvalutazione di sé stessi. L’inconciliabilità con l’esistenza è essa stessa la vita e il tormento di una coscienza che vaga da un rifugio momentaneo nell’alcool o da una scopata con un uomo incontrato per caso. Manifesto della necessità di una incongruenza che rompa con qualunque schema, “Queer” è la maledizione di artisti e registi che hanno provato a metterlo in scena.

Alcuni hanno tentato, altri hanno rinunciato e Luca Guadagnino, regista di “Chiamami col tuo nome” e di “Challengers“, pare ci sia riuscito. O meglio, ha fatto del libro di Burroughs un film. Le sferzate dei critici sentenzieranno in merito, ma mai parimenti al pubblico che è un più severe (e spesso ingiusto) giudice. Il vagare di William Lee non si interrompe nemmeno quando incontra Allerton, rappresentazione letteraria, sembra, di un soldato americano incontrato dall’autore in gioventù… Qui entra in scena l’imprevisto, il perturbabile si fa sostanziale.

Lee non resiste all’attrazione per il ragazzo e, abituati a conoscerlo sin dalle prime pagine come uomo indurito e infradiciato da una sequela di avvenimenti e avversità che ne hanno fatto un rifugiato all’estero, in fuga dalla Legge, dalle autorità, un po’ da tutto, oltre che da sé stesso, ne assistiamo ora alla trasformazione: per quello che si potrebbe chiamare “amore“, riesce quasi a rendersi ridicolo. Ma è probabile che l’altro William, lo scrittore, ci abbia voluto abituare ad un personaggio mascherato, uno nessuno e centomila, un Giano Bifronte.

L’inchino di Daniel Craig al giovane, al centro della scena in un bar, restituisce tutta la comicità drammatica che si ritrova nel libro: Lee è rapito dal giovane e, tuttavia, è troppo immerso nel suo mondo di sofferenza psico-fisica per essere lucido al punto da vivere un sentimento che abbia i tratti della normale, consueta arte della seduzione. Così, passo dopo passo, i due si avvicinano, si scrutano, si leggono negli occhi e nel cuore: ciascuno ha un pezzo di muscolo da dare all’altro.

Ma la breccia si apre, Allerton non cede ma procede verso Lee e si lascia in qualche modo irretire, forse anche sedurre dalle attenzioni smodate di un tossicodipendente, alcolizzato che ha una sua prestanza fisica, uno sguardo introspettivo che fuoriesce dalle orbite di occhi incavati, sotto un cappello calcato sulla fronte che lascia intravedere i segni della lucida follia, del trasalimento, della rottura drammatica con l’uguale, il quasi-perfetto, il giusto e il sobrio (un po’ in tutti i sensi).

L’amore avvicina, concentra, abbacina al punto da far volare oltre i confini messicani. Là nella foresta amazzonica, per il controllo: di sé stessi, degli altri, ma mai del tutto. Alla ricerca dello yagé, della pianta che concede il dono della telepaticità, della lettura dei pensieri, del poter quindi avere un vantaggio in più rispetto alla comune massa dei singoli che sono impenetrabili, incapaci della sincerità, scrutando dentro gli anfratti della mente e del cuore.

Qui William Burroughs apre le porte della sua novella-romanzo proprio al tema del “controllo” che sovrasta tutti i momenti in cui Lee si confessa apertamente e si infligge una sequela di passaggi colpevolisti che ne delimitano le potenzialità, che gli impediscono di essere un uomo nuovo, oltre il confine con gli Stati Uniti prima e oltre quello del Messico poi. I conti che deve fare col passato sono quelli che gli toccano anche nel presente, perché non ha mai messo un limite alle sue smisurate passioni, agli irrefrenabili desideri, alle incontenibili eccitazioni provocate dagli stimolanti alcolici e tossici.

Ma, più di tutto, è l’omosessualità ad essergli ombra nel profondo dell’animo, che si propaga tutto intorno e che prova a far sparire come quintessenza di un pregiudizio accecante che staglia contro il muro dei sensi di colpa tutto il buio dei sentimenti inespressi e delle passioni inconfessate e sostituite con la meccanica del sesso a buon mercato: «Non dimenticherò mai l’inenarrabile orrore che mi raggelò la linfa nelle ghiandole […] quando quella parola perniciosa lasciò un marchio a fuoco sul mio cervello vacillante: omosessuale. Ero un omosessuale».

Allerton è la possibilità di uscita dalla prigione dell’indifferenza e della condanna altrui: è il riscatto anzitutto mentale e morale di una liceità dei comportamenti che fa il paio con la sincerità dei sentimenti, dell’amore vero e proprio. Ed il giovane sembra capirlo, nonostante una iniziale, comprensibile diffidenza per gli incasellamenti, le definizioni e, quindi, il “posto” nella società. Una utopia, come vero e proprio non-luogo, della propria esprimibilità tanto egotica quanto simbiotica. Il rapporto con Lee è controverso ma onesto.

Dirompente nell’irriverenza, scardinante ogni certezza possibile e accumulata con dovizia nel corso di una esistenza comodamente consueta e piegata alla routine delle giornate tutte uguali, il romanzo di Burroughs è, tuttavia, qualcosa di differente rispetto alla scontata metaforizzazione del “pugno nello stomaco“. Perché non è indecente, ma benianamente “osceno nell’essere in scena“: sulla scena della vita che CB avrebbe definito “mediocre e puttana“. Se vi è qualcosa di più atterrante della tossicodipendenza, della incessante smania sessuale e dell’alcolismo, è per l’appunto la banalità dell’ontologia esistenziale.

Non essere tanto per esserci, ma essere oltre l’esserci, quindi l’abbandonarsi al deserto dell’animo, dei sentimenti che fluttuano nell’aere, delle emozioni che non si possono descrivere e che, quindi, sono le prime valchirie all’assalto degli schematismi conformistici del presente che è il vuoto più concreto. William Burroughs, al pari di Lee, cerca di controllarsi, ma più lo fa e più senso di colpa ed eccesso riemergono con prepotenza.

Fin dentro i ricordi del terribile gioco, intriso di stupefacenti e di molti bicchieri di liquore, che lo ha trasformato in un novello Wilhelm Tell, uccidendo la sua seconda moglie. Nemesi dell’immediatezza, piuttosto che vendetta del e dal passato, il bicchiere in testa alla donna non viene centrato dal proiettile sparato dall’autore che, invece, colpisce la fronte e ne mette fine all’esistenza. Il dramma risveglierà i sensi intorpiditi di Burroughs che, a partire da allora (siamo nei primi anni Cinquanta), si dedicherà alla scrittura delle sue opere più importanti.

L’indagine sull’immoralità è quanto di più eclatante si legge nei suoi romanzi. Ed in “Queer“, naturalmente, questo scrutare e scrutarsi internamente, vagando per le vie di Città del Messico, somiglia, perché è, ad una cascata inesauribile di parole, di concetti, di metafore, di allusioni e di ripetuti sguardi introspettivi che rimarcano e sottolineano tutto ciò che è diverso, privando il pregiudizio di qualunque appiglio possibile nel perimetro della critica perbenista.

L’edizione proposta da Adelphi restituisce al romanzo la sua originale natura di coevità tra l’epoca dell’autore e quella della narrazione di un travaglio esistenziale che non scade mai nella commiserazione, nel pessimismo, nell’autocelebrazione di quelli che il pensiero comune potrebbe definire, con tutta l’annoiata, molle giudicante prosopopea dell’etica superiore del “normale“. Ciò è possibile grazie al recupero dei manoscritti originali e, quindi, alla traduzione più attenta del testo.

La dimensione onirica può prendere il sopravvento, pagina dopo pagina: si è portati a pensare, vista la dicotomia tra la vita spericolata dell’autore e di Lee e quella della stragrande maggioranza (ma è poi davvero così?) delle persone, che forse ci si trova in una distopia dell’animo e della mente, del cuore e del corpo. In una trasposizione quasi extrasensoriale, che prescinde dai sensi perché li oltrepassa a tal punto da renderli ininfluenti nel processo di controllo che pure mette quasi al centro della scena.

Eppure più che un sogno, tutto il cammino di Lee di Allerton sembra un madido incubo da cui si risveglia rimanendo sempre a metà tra coscienza e incoscienza. In quello stato di propensione ad una catarsi che è purificazione personale e non sociale: fatta per nettare i propri sentimenti, senza badare ai giudizi, alle convenzioni, agli stereotipi e alle pretese altrui. “Queer” è una immersione totale nella maledizione degli errori evidenti, a cui non c’è rimedio, che ti accompagnano per sempre.

O, per meglio dire, che ti raggiungono di volta in volta, quando tenti di emendartene e ti rendi conto che il conto, alla fine, non torna mai, perché non solo le cifre sono truccate, ma lo è, nella sua straordinaria, misteriosa complessità, la partita della vita.

QUEER
WILLIAM S. BURROUGHS
ADELPHI, 2013
€ 12,00

MARCO SFERINI

13 novembre 2024

foto: particolare della copertina del libro


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