Andrea Scanzi si è fatto una domanda che dovremmo porci un po’ tutte e tutti, almeno quelli che hanno un briciolo di senso critico nei confronti dei moderni mezzi di comunicazione, di interazione e di scambio quasi totalizzante di informazioni quotidiane da profilo a profilo, da social ad altro social.
Ma siamo sempre stati così veracemente e voracemente violenti nel commentare, nel verbalizzare le nostre opinioni, nel renderle anche piuttosto aggressive e intimidatorie, intrise di una permalosità all’eccesso, oppure tutto questo è frutto di una trasformazione indotta dall’utilizzo di Internet e della moderna scoperta fatta dai nuovi Paperon de’ Paperoni che hanno inventato, quasi dal nulla, da guizzi di ingegno, i social network?
Non c’è niente di retorico in questo quesito, qualora qualcuno potesse ritenerlo. Perché, semmai, di retorica e di inusitata banalità, di un vuoto cosmico e pneumatico si nutrono proprio gli oggetti della domanda: le persone che utilizzano i social e che, compulsivamente, invece di fermarsi a riflettere e a ragionare, scrivono il primo commento che gli passa per la testa e, così, sfuggono alla tentazione di approfondire un tema, di eviscere i fatti, di discernere meglio anche tutto quello che li circostanzia.
Abbiamo, in sostanza, ceduto alla seduzione della facilità di una superficialità che ci compenetra senza un attimo di respiro e, dalla mattina alla sera mettiamo decine e decine di “like” ad immagini, “meme“, scritti brevissimi su X, su Telegram, per non parlare delle chat di Whatsapp, dei gruppi, delle mailing list a cui si risponde senza l’accortezza di eliminare l’opzione verso tutti i componenti della lista, ai video e alle storie di Instagram o a quelle su Tik Tok.
Il gioco ci è sfuggito di mano. Facebook viene rienuto un social ormai da “boomer“, mentre Instagram non perde ancora il suo posto sul podio. I giovanissimi privilegiano la videoabilità di chi realizza dei brevi spezzoni dove si fanno scherzi, dove si prova a dimostrare una qualche innata abilità, dove si diffondono “viralmente” le “challenge“, ossia quelle sfide in cui l’estremo è la regola.
Poi se il protagonista finisce all’ospedale o all’obitorio, oppure finisce per mandarci qualcun’altro, allora la comunità si interroga sul senso di tutto questo. A quel punto, senza possibilità di scommessa uguale e contraria, partono migliaia di commenti: c’è chi insulta, chi applaude, chi è morso dall’invidia, chi dalla rabbia, chi prova anche a mettere giù alcune righe pacate per dare l’impressione di voler interrompere la catena di “haters” che pregiudizialmente sono dediti solo all’odio e al disprezzo.
Ma anche il più nobile tentativo viene soffocato e sopraffatto dalla miriade di profluviante valanga di anatemi e giudizi, di condanne e di stigmatizzazioni che sopravanzano e surclassano senza pietà chiunque cerchi di aprire un varco nel dubbio, di fare spazio ad una argomentazione, di esercitare quella propensione alla dialettica che dovrebbe essere l’esercizio primario per la nascita e la crescita di un pensiero anche duramente critico ma ponderato.
Non c’è spazio nella freneticità dei social per la buona, onesta, sincera e disponibile attitudine alla considerazione delle opzioni. Come ne ragione Scanzi, si ha a volte l’impressione che tutta questa cattiveria e questa animosità abbia sempre un po’ covato sotto le ceneri di qualche nostro inconscio (magari pure collettivo…) e che le reti cosiddette “sociali” (e che tutto sono tranne quello) abbiano solamente fatto emergere la Nemesi che covavamo internamente come espressione di una giustizia tutta nostra.
Ogni volta che gli odiatori si scatenano, lo fanno tanto su questioni di cui non conoscono nemmeno una virgola, quanto su pettegolezzi che rimbalzano su tutti i siti Internet, su ogni piattaforma con una rapidità davvero inimmaginabile anche soltanto quando la rete è nata. Perché la vera svolta nell’utilizzo del web è stata la creazione di una illusoria condivisione delle vite di ciascuno e di tutti per sentirci più vicini, per condividere e stracondividere qualunque aspetto delle nostre esistenze.
Quanti di noi non hanno mai fatto una foto a qualcosa che gli piaceva e poi l’hanno messa su Facebook per mostrarla a quelli che vengono definiti “amici” e che nemmeno si sono mai visti di persona una volta? Quanti di noi non hanno mai scritto poche righe per commentare il fatto del giorno, per dire la propria e abbandonare queste parole alla valutazione di questa schiera di contatti che sono, per la maggior parte, degli anonimi a cui l’interrattività telematica ha dato una sostanziazione?
Non è una questione modaiola. Qui siamo a livelli ben più alti per poterci dire scesi ad una infimità mai raggiunta, perché mai nella storia dell’umanità qualcuno aveva avuto a che fare con la moderna tecnologia, con il collegamento del mondo piccolo delle nostre città e dei nostri paesi col mondo intero.
La globalizzazione delle merci e quella delle conoscenze è stata sostenuta da Internet nella sua capacità di espansione senza sosta, senza alcun confine etico, senza alcuna pregiudiziale positiva. Ciascuno di noi si sente autorizzato a dissertare su qualunque tema.
Lo si è chiaramente potuto constatare durante il biennio pandemico, quando pro vax e no vax se le sono suonate di santa ragione sui social sostenendo ottusamente sragionamenti opposti: gli uni con un fideismo teleologico che voleva provare l’ultima causa nella scienza, gli altri con l’invenzione di tante fantasie di complotto deprimentemente ritmeggiate nei cortei e nelle manifestazioni dove all’ignoranza si univa la strumentalizzazione di capi popolo (e bastone), di tribuni di una mediocrità assoluta.
Invece di fidarsi della prova scientifica, pur criticando giustamente la voracità liberista dei produttori di vaccini che, del resto, essendo in una società capitalistica, mettevano in essere il loro ruolo di profittatori, si è preferito estremizzare le posizioni.
Soprattutto da parte della galassia no vax, eterogenea nell’immaginare tutto e il contrario di tutto: dalla volontà dei grandi poteri economici di controllare l’intera popolazione mondiale con dei microchip inseriti (non si sa bene come…) sottopelle con l’inoculamento dei vaccini, chiamati per l’occasione “sieri genici sperimentali“, fino alle altre fantasie di complotto sul Deep State.
I social network sono stati il veicolo privilegiato di una grande bolla di odio che ha raggiunto livelli esponenziali e che spingeva le persone ad escludere dai propri contatti su Facebook o Instagram quelli che erano a favore dei vaccini. Un razzismo antiscientifico, un disprezzo per l’oggettività, perché la paura era così grande da esigere un nemico altrettanto grande: il mega complotto universale di forze occulte, di cui però si sapeva alla fine tutto…
Sarebbe interessante fare una ricerca storica per capire se anche durante l’epidemia di influenza spagnola ci furono isterie di massa come queste, magari tradotte in parole nelle lettere scambiate dai fronti della Guerra mondiale ai focolari domestici, oppure se si pensava, molto più rassegnatamente e mestamente, ad un castigo divino per il conflitto fatto scoppiare nell’intera Europa degli imperi e dei regni che sarebbero tramontati di lì a poco.
Famosa è quell’epigrafe di Umberto Eco, data alla riflessione pubblica urbi et orbi, che sintetizza argutamente un po’ tutto quello che possiamo dirci e che possiamo scrivere anche su questa fase involutiva dei social come cassa di risonanza della gratuita ostilità dettata dal razzismo, dallo specismo, dall’omofobia, dai cento, mille pregiudizi che stanno acquattati nei meandi delle nostre incoscienze e che vengono fuori come saette fulminanti.
Diceva il grande semiologo: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
Come dargli torto. Il miglior modo sarebbe un utilizzo dei social opposto a quello di oggi: un adoperarli per scambiarsi opinioni senza presumere di avere la verità in tasca o, comunque, di saperne più di altri. Stiamo combattendo una battaglia contro una forma mentis molto antica, radicata nell’istintualità umana. Quella di oltrepassare i limiti. Propri e degli altri, per mostrarsi migliori, superiori e, quindi, fare di questa superiorità un diritto al potere, all’esercizio dello stesso.
Scivoleremmo nell’analisi antropologica e sociologica se continuassimo su questo versante, magari sgattaiolando via dalla domanda iniziale: sono i social che ci hanno abbruttito interiormente, esasperando le nostre ancestrali cattiverie, oppure siamo sempre stati così e solo ora, con questa rapidità comunicativa e questa voglia spasmodica di dire tutto di tutto, tutto a tutti e tutto su tutti, ce ne rendiamo apertamente conto?
La domanda resta ed è materia per un avviluppamento vorticoso e cortocircuitale che innesca commenti su commenti per dare adito ad una infinita corsa all’impossibile soluzione dell’enigma. Se volessimo essere generosi con noi stessi, probabilmente dovremmo assolvere la nostra stupidità facendola in parte risalire alla naturale propensione che abbiamo ad una abitudinarietà che è uno dei punti cardine del seguire la corrente.
Non siamo – è bene ripeterlo – davanti ad un fenomeno modaiolo, ma è anche altresì vero che chi ha inventato i social voleva che questa fosse la risposta di massa, globale.
Quegli strumenti dovevano diventare necessari alla vita di ognuno di noi, cambiandola radicalmente e costringendoci, nell’apparente scelta libera di ciascuno se avere o meno Facebook, Twitter, Instagram o Tik Tok, a farne delle protesi cui appoggiarci per lenire solitudini, creare comunità virtuali, alimentare illusioni di ogni tipo, fornire un aiuto indubbio all’interattività nei posti di lavoro.
Ma il prezzo di tutto questo è stato il salire un gradino ulteriore nella scala dell’alienazione, della spersonalizzazione, dell’egocentrismo, della massima considerazione di sé stessi a scapito della condivisione vera di una empatia che è la vittima principale di una società atomizzata e resa dipendente dal virtuale.
Non è possibile dare una risposta ad una domanda come quella fatta da Andrea Scanzi. Ma è invece auspicabile pensarci e seriamente, perché un pizzico di criticismo in più non guasta. Soprattutto prima di scrivere il prossimo post, di fare la prossima foto, di realizzare la prossima storia.
MARCO SFERINI
1° settembre 2023
Foto di cottonbro studio