La bomba è al centro di tutto, della deflagrazione prima di ogni altra cosa, della luce sfavillante, accecante, immensa nella sua centrifuga di bianco, di grigio, di nero che sorvola le città, i paesi. Un minuto prima tutto era come prima. Un secondo dopo quel minuto quasi più niente è come prima.
La bomba è la razionalizzazione dell’atomo, dell’indivisibile per antonomasia; è la quintessenza della potenza fino ad allora inimmaginabile. E’ al di là dei racconti di fantascienza che fino a quel momento si erano scritti e che aprivano le menti a viaggi nel sottosuolo, negli abissi, nell’universo. Sempre nel mistero dell’incognito da scoprire.
Ma nessuno aveva ancora pensato ad un mondo che non ci sarebbe stato più. Un po’ tutti avevano provato a favoleggiare di altri mondi nel mondo: sotto la crosta terrestre, oltre l’atmosfera, nel profondo degli abissi marini o, magari, indagando per l’ennesima volta i continenti scomparsi. Dagli abitanti di Atlantide a quelli della Luna, la proiezione umana nel sovrumano era un tentativo di resistenza alla finitudine.
Era il sogno della continuazione della storia, della specie in altre storie, in altre specie. Con una contaminazione benevolissima che oltrepassava i confini della fisica, che idealizzava il tempo e ne faceva uno spazio da attraversare perché sempre uguale a sé stesso in ogni istante, ripetuto infinitamente. Ma nesssuno scrittore, nessun poeta, nessun artista aveva pensato che da un atomo potesse sprigionarsi quel bagliore, quella fine.
Poi l’Enola Gay ha sganciato la bomba. Il pilota di Hiroshima, probabile che fosse “un duro alla maniera di John Wayne“, come cantavano “I Nomadi“, ha premuto quel pulsante, ha mosso quella leva e il portellone si è aperto. La bomba è cascata dal cielo e, prima ancora di arrivare a terra, a poche centinaia di metri dal suolo, è diventata un sole assassino, un sole sopra teste incenerite in un battibaleno. Letteralmente.
Il kubrickiano “Ordigno Fine di Mondo” non aveva innescato quella reazione a catena della guerra termonucleare totale, ma in un istante era riuscito a cancellare dalla faccia della Terra, dal Giappone nello specifico, centocinquantamila persone. Saranno poco più della metà a Nagasaki. Sarà la resa dell’Impero de Sol Levante. Sarà la conclusione della secontra tragedia mondiale.
I nomi che ricorrono quando si parla della bomba per orribile eccellenza, sono quelli di una guerra, già citata, di un aereo, già citato anche quello, di un presidente americano e di un fisico nato a New York nel 1904. Julius Robert Oppenheimer, figlio di emigrati ebrei tedeschi, è una mente straordinaria, di quelle che si direbbero “fuori dal comune“.
Dalla chimica passa alla fisica. Sarà la sua vita. A soli ventidue anni ha già rapporti con i maggiori fisici europei dell’epoca. Scrive articoli, fa esperimenti, e fonda teorie per cui di cui noi profani possiamo solo accennare i nomi con cui sono note senza, tuttavia, aggiungere nulla alla magra conoscenza che abbiamo. Sta di fatto che, mentre il Nazionalsocialismo si afferma nella patria dei suoi genitori, lui scopre comportamenti molecolari della materia che saranno alla base delle successive nozioni atomiche.
Gli esperti ci perdoneranno questa eccessiva e svilente approssimazione, ma sarebbe davvero complesso e qui fuorviante entrare nello specifico della “approssimazione di Born-Oppenheimer” o dell'”effetto tunnel“, così come nello studio sull’accelerazione delle particelle. Alla fine di tutto c’è lei, la bomba. In principio sarà anche stato il Verbo, ma al termine c’è una immensa luce da cui si distoglie lo sguardo.
Esattamente come quando si tenta di fissare il sole per più di qualche secondo. Se non si vuole rischiare un principio di cecità, si deve chinare o voltare la testa e, chiudendo gli occhi, rivivere emblematicamente quel cerchio abbacinante nelle fotopsie che si muovono veloci non solo sulle palpebre calate ma anche nella nostra immaginazione.
Oppenheimer è, nel 1942, in piena lenta torsione della guerra a favore degli Alleati, il direttore del “progetto Manhattan“. Il governo degli Stati Uniti d’America vuole un’arma che metta fine al conflitto. Un’arma così potente da piegare il Terzo Reich e il Giappone. L’Italia è una comprimaria che presto si dividerà in due ed è quasi del tutto ininfluente nel racconto di questa storia (un po’ meno in quello della guerra…).
Il progetto militare di sviluppo della prima bomba atomica è qualcosa di parzialmente comprensibile persino per coloro che lo studiano e per i vertici delle forze armate che lo condividono insieme ai politici della Casa Bianca e del Congresso. Nessuno sa bene fin dove questa potenza paventata andrà a parare. Nessuno, in sostanza, conosce gli effetti di un ordigno che, secondo i calcoli, sprigionerebbe un calore così immenso da radere al suolo intere città senza bisogno di ulteriori attacchi.
La guerra è un costo in termini di vite ed è un costo economico. Un calcolo sociale, ma soprattutto, per il potere, un calcolo politico che è sostenuto da un interesse cha va al di là dei finti proponimenti umanitari che vengono spacciati come causa ed effetto della bomba stessa. Il progetto curato a Los Alamos è pensato da Washington per la fine del conflitto e come deterrente per evitare nuovi conflitti.
Quindi, è pensato, in pratica, come bastone con cui dirigere la nuova stagione di una umanità distrutta fisicamente, provata moralmente, annientata psicologiamente dopo un lustro e più di combattimenti in cui sono morti più di cinquantaquattro milioni di individui. La bomba che Oppenheimer e la sua squadra mettono a punto è, dal punto di vista scientifico, un successo. Il fisico sa che quello che il governo gli chiede rientra nelle necessità di un pragmatico stop a tutto questo.
Ma sa anche, e qui si avviluppa tutto il suo tormento, che quella richiesta gli impone una obbedienza ad una eterogenesi dei fini che, quasi certamente, avrebbe voluto evitare per sé e per il nome legato, comunque, ad una grande scoperta che cambierà la Storia del pianeta. La vicenda si dibatte, quindi, in una contrapposizione perversa tra necessità ed obbligo, tra ammirazione per i progressi della fisica moderna e il giustificato timore dell’incontrollabilità di tutto questo.
Nelle otto lezioni che, dopo lo sgancio delle bombe sul Giappone, il professor Oppenheimer terrà davanti ad uditori molto variegati fra loro, qui riunite sotto il titolo di “Quando il futuro sarà storia. Otto lezioni dopo Hiroshima” (UTET, 2023), il dramma della coscienza convive con il compiacimento dello scienziato. Delitto e castigo, verrebbe da dire. Ma sarebbe anche ingiusto condannare l’uomo e il fisico al tempo stesso.
E questo perché, essenzialmente, furono i fatti contingenti a costringere quel gruppo di menti brillanti a pensare alla fissione nucleare soltanto nei termini di un progresso offensivo e non di uno sviluppo di nuove energie capaci di migliorare l’esistenza di miliardi di persone. L’energia atomica è tema al centro di dibattiti necessari oggi più che mai, mentre le guerre divampano e si concatenano fra loro in un puzzle impazzito che, primo fra tutti il pontefice, viene definito come la “terza guerra mondiale a pezzi“.
Se si prova a connettere la nostra presunta modernità, in cui la questione energica è preponderante per interessi globali che riguardano la sopravvivenza dell’umanità (a scapito di ambiente ed animalità) sempre meno sostenibile in un pianeta che le diviene, per forza di cose, ostile tanto d’estate quanto d’inverno, con il Novecento in cui si passa dalle lampade a gas all’atomica, diverrà del tutto evidente come il fattore del progresso non sia necessariamente positivo.
Più degli storici, i commentatori del cammino umano dibattono sulla questione astratta dell’ipotesi “Progetto Manhattan” al di fuori del contesto bellico: se gli scienziati come Oppenheimer fossero stati liberi di fare le loro scoperte in tempo di pace, quella grande potenzialità energetica sarebbe stata indirizzata tutta, o quasi, nella direzione dell’alleggerimento delle difficoltà economiche dei popoli dei cinque continenti?
Qui, caso mai cercassimo davvero un ponte tra fisica e metafisica (anche delle idee), tra ipotesi e tesi, tra realtà e sogno, le parole contenute nelle lezioni di Oppenheimer si traducono in una autocritica abbastanza illuminante; decisiva per comprendere quelle che erano state le aspirazioni iniziali e quelle che, alla prova dei fatti, si sono rivelate le applicazioni sul terreno. La delusione, se davvero è rintracciabile nelle parole del fisico americano, sta, oltre Hiroshima e Nagasaki, nell’immaginazione del futuro.
Quindi nel potenziale deflagrante della bomba data ad una concentrazione di poteri che sembra non essere in grado di razionalizzarne la pericolosità, tutta tesa a soddisfare bisogni di egemonia globale mediante fasi e controfasi imperialiste in cui lo scontro delle civiltà si produce nella tensione costante della Guerra Fredda.
La domanda che gli scienziati si pongono, dopo il test della bomba nel deserto è quasi ancestrale: tutto questo è un bene o un male per il mondo nel suo insieme? E’ un avanzamento o un arretramento? La linea del tempo coincide con quella di uno spazio in cui la morte è necessariamente protagonista e si esprime senza soluzione di continuità in un raggio di decine di chilometri quadrati. Polverizza, annienta, non permette alle macerie di rimanere in piedi e carbonizza qualunque cosa incontri.
In una frazione di secondo, l’esistenza di ognuno di noi sembra ancora più miserrima rispetto al già tremendo paragone che le si può conferire afferendola all’infinità dell’Universo e ai suoi tempi impensabili. La bomba, quindi, ha dato alla scienza una nuova ragione di essere o ha decretato la sua pericolosità e la necessità di uno obliante spazio negletto per le future scoperte?
Oppenheimer prova a scorgere l’ottimismo della volontà accanto ad un pessimismo della ragione che in parte assolve, in parte condanna l’azione umana pur nel progresso oggettivo della scienza. Nei ragazzi di strada, che giocano e saltellano, sostiene di vedere un potenziale positivo per le future acquisizioni di menti che sappiano fare calcoli meglio di lui e dei suoi colleghi. E’ la forma della percezione che gli interessa. Quella che, via via, si perde mentre si avanza in età.
E’ l’innocenza del sapere che lo conquista e gli fa parlare, nonostante tutto, si speranza per un mondo migliore. Difficile poterlo vedere anche oggi. Lo scienziato ne sarebbe deluso, quasi certamente. Ma, se ci scrutiamo bene dentro, anche noi andiamo cercando quel briciolo di senso per poter sopravvivere e dire a noi stessi, sapendo di mentirci nello stesso istante, che tutto sommato qualcosa di buono dentro abbiamo e che deve solo potersi esprimere.
Compiutamente. Date le circostanze adatte. Come se a crearle dovesse essere il caso. Un fatalismo che brucia sopra il confine tra cielo e terra, al di là della drammatica rappresentazione di una terza guerra mondiale non dichiarata, non ancora storicizzata, ma che è spettro presente che si aggira oltre che per l’Europa, per l’Africa, l’Asia e l’America.
La bomba è il massimo della violenza devastatrice e annichilitrice. Ma quante altre bombe ogni giorno noi lanciamo attorno a noi senza accorgercene, ferendo nel profondo chi poi si lascia lentamente trascinare da una rassegnazione incolore e davvero disumana? Anche a questo dovremmo cercare una risposta… Quando il futuro sarà ormai storia, speriamo non sia troppo tardi.
QUANDO IL FUTURO SARA’ STORIA. OTTO LEZIONI DOPO HIROSHIMA
JULIUS ROBERT OPPENHEIMER
UTET, 2023
€ 17,00
MARCO SFERINI
31 gennaio 2024
foto: particolare della copertina del libro
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