Quando i pacifisti dicevano che i patti si fanno con i nemici

Due obiettivi sono ora importanti: trattare con i Talebani per ottenere canali per l’espatrio e dialogare con Teheran per far passare ai profughi di Kabul la lunga frontiera

Vi ricordate uno degli slogan che esprimeva una delle più importanti verità che il movimento ci aveva fatto capire nell’epoca gloriosa del pacifismo, il solo, grande movimento realmente europeo che si sia sviluppato, quello degli anni Ottanta, quello che recitava: ”I patti non si fanno con gli amici ma con i nemici”? Voleva dire no ad Alleanze Atlantiche e invece ricerca di un accordo, o almeno di un compromesso, di un dialogo, con quelli che stiamo combattendo.

Ed era il corollario di un’altra verità: “La guerra è un retaggio medioevale, la politica estera non può più affidarsi alla rozza semplificazione militare”.
So bene che poi nel concreto spesso non è facile applicare queste indicazioni; e infatti in questo stesso scorcio di tempo sono state calpestate. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non solo in Afganistan, ma anche in Iraq e altrove.

Ripenso a questi slogan in questo momento terribile in cui le conseguenze dell’averli ignorati scorrono drammaticamente sugli schermi televisivi: se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a – i nostri “amici” – (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afghanistan stava dalla parte dei Talebani. Quello che invece hanno fatto le Ong che si sono impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni (quella ufficialmente al governo a Kabul, del presidente fuggitivo Ghani, non era molto di più di una fazione, ma una fazione alleata della Nato; e infatti si è dissolta in pochi giorni).

Non vorrei che oggi ci dimenticassimo di quanto abbiamo predicato, e invocassimo il “Mai riconoscere i Talebani” in nome di una radicalità che non è tale, perché è solo una assenza di riflessione. Dire “accordi” coi nemici, non vuol dire riconoscere il governo dei talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire cercare di trattare e strappare qualche possibilità di salvare chi ora rischia la vita. In molti casi significa accordarsi per ottenere vie d’uscita dal paese. Se non otteniamo questo non vedo cosa potrebbe servirci, di per sé, l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. Prima, ora, subito, bisogna ottenere canali per l’espatrio. Qualche spazio di trattativa, ancorché limitato, sembra esserci, bisogna profittarne e allargarlo, non chiudersi nella demagogica invocazione ”con i talebani non si tratta”. Se non si tratta, vuol dire che si continua la guerra. E cioè che chiediamo alla Nato di non partire dal paese e di riprendere i combattimenti.

A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afghanistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: ”Riportare a casa i nostri ragazzi!”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i nostri ragazzi hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.

C’è un altro obiettivo urgente, che sembra dimenticato e invece è importantissimo: il grosso di chi ha bisogno di scappare dal paese premerà inevitabilmente sulla lunga frontiera con l’Iran. E’ dunque urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera, non per farci accordi analoghi a quelli con la Turchia, ovviamente. Ma per dialogare bisognerà anche riconoscere le ragioni di Teheran, che patisce un durissimo embargo quando Washington ha deciso che andava punito perché avrebbe violato l’accordo sul nucleare (che non chiede solo ai paesi che non hanno le bombe di non cominciare a farle, ma anche a quelli che le hanno di non continuare a produrle. Come poi è risultato clamorosamente si tratta della stessa pretestuosa bugia che dette il via all’aggressione all’Iraq). Mobilitarsi per “liberare l’Iran”, è la cosa più utile che si possa fare per aiutare ora i profughi afgani. Ogni tempo ha le sue priorità, in questo è prioritario bloccare la ripresa della guerra.

Sono consapevole di rischiare un attacco di tanti che sono da sempre miei compagni di lotta perché può sembrare che quanto dico sia simile a quanto, tatticamente, dice il generale Stoltenberg. Ma sono certa che la vecchia guardia pacifista sarà d’accordo sull’importanza di ricordare sempre che si fanno patti con il nemico e non con gli amici. Con questi, se sono veri amici, non è necessario, perché ci si intende lo stesso. Con la Nato ho i miei dubbi.

LUCIANA CASTELLINA

da il manifesto.it

foto: screenshot

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