Ho pensato, lì per lì, in mezzo al rigurgito di disprezzo e di odio incessante, tracontatemente quotidiano, che chiamarli “rom” fosse un passo avanti rispetto al dispregiativo “zingari”.
Poi ho riflettuto meglio, credo, e ho capito che chiamarli “rom” era anche giusto dal punto di vista lessical-sociologico ma era anche un modo per mettere al centro dell’ondata razzista e xenofoba che monta nel Paese un nuovo stigma nominale: sarebbe come trasportare tutto il carico di pregiudizi dalla parola “negro” a “nero”.
Nello specifico la frase più inquietante è questa: “I rom italiani purtroppo te li devi tenere a casa“. Contiene quell’avverbio (“purtroppo”) che è di sopportazione, di tolleranza (ricordo che la tolleranza è un concetto falsamente positivo ed esprime propriamente ciò: “Ci sei. Se non ci fossi sarebbe meglio”), di evidente fastidio.
Quindi è un messaggio che dall’alto di una carica dello Stato discende nella cosiddetta “opinione pubblica” che, in questi mesi (anche anni…), è stata ripetutamente e sapientemente condizionata da istillazioni di paura costante montata sulla percezione del pericolo che proviene sempre e solo dal “diverso”: sostanzialmente per origine, per carnagione e colore della pelle, per religione, per cultura, per abbigliamento.
La paura è la regola su cui si regge tutta una politica rivoluzionaria di sovvertimento della democrazia costituzionale italiana che all’articolo 3 della Carta esprime senza interpretazione di sorta i valori della Repubblica rispetto al vivere civile, al consesso comune, al rapporto tra differenti gruppi sociali: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale“. “TUTTI”, dice la Costituzione; dunque, nessuno escluso.
Continuano i Costituenti: “…e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.“.
Allora i razzisti di casa nostra si affrettarono, non molto tempo fa, a far la voce grossa anche sulla Costituzione, affermando che parlare di razze era legittimo in Italia visto che la stessa legge fondamentale dello Stato citava quella parola.
Evidentemente non avevano letto i resoconti parlamentari dell’Assemblea Costituente, altrimenti avrebbero saputo che intorno all’inserimento proprio della parola “razza” si aprì un dibattito: la comunità ebraica preferiva la parola “stirpe”, lasciando la “razza” al campo più specificatamente animale; i liberali come Lucifero pensavano così, mentre Togliatti affermava: “Bisogna adoperare la parola ‘razza’ per dimostrare che si vuole ripudiare quella politica razziale che il fascismo aveva instaurato“.
Andare dunque al di là della razza mettendo la parola nella Costituzione per evidenziarla tra le negatività cui l’uguaglianza non deve sottostare. Una intuizione non da poco che univa l’orribile recente passato nazifascista ad una svolta a centottanta gradi per il futuro.
Dunque, fare un censimento dei rom è oltre che immorale anche incostituzionale. Ma fare ricorso alla legge in questi casi evidenzia la sconfitta della cultura sociale, la concezione dell’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini e la messa in discussione di princìpi fondamentali che parevano incrollabili.
Accanirsi prima contro i migranti e poi contro i rom paga elettoralmente perché larga parte della popolazione è seducibile con argomenti di protezionismo culturale, di difesa dell’italianità di tutto ciò che capita per le mani e per la bocca, visto che parliamo di un popolo privo di strumenti di analisi, incapace di superare le menzogne e le artificiosità razziste che possono così prosperare davanti ad una ignoranza che emerge tranquillamente nel mostrarsi attraverso chiacchiere da bar che diventano proprie anche di un certo intellettualismo che mostra “dubbi” sull’atteggiamento mostrato dal governo italiano in merito al caso della nave Aquarius ma che, in fondo, non mette in discussione quella scelta disumana.
Accanirsi contro il “diverso” paga elettoralmente, dunque: la Lega vola nei sondaggi, fa tremare Di Maio che vede il suo movimento superato dal suo comprimario di governo con un insperato 29,2%.
Milioni e milioni di italiani si stanno facendo convincere che le emergenze siano quelle e ogni tematica che riguarda il lavoro sta passando in secondo, terzo, quarto piano.
Forse gli ungheresi sono abituati alla grettezza con cui il loro primo ministro si rivolge verso altri esseri umani. Mi piace pensare che tutto sommato gli italiani, Costituzione alla mano, possano avere alla fine un moto di indignazione, anche di vergogna, quindi recuperare una umanità che si sta disperdendo ogni giorno che passa e che viene triturata dal rullo compressore di una mortificazione dell’intelligenza e del buon senso, utilizzando parole di odio, provando a farci vivere sempre con l’occhio mezzo socchiuso, guardingo, come tante spie che cercano di scovare l’infamia, il tradimento, il reato ovunque.
Una brutta vita. Una vita fatta di sospetti, di paure, di distinzioni pregiudiziali, di cattiveria e di crudeltà. Una vita passata a concentrarsi sull’esterno da noi, privandoci del piacere di una socializzazione che potrebbe diventare un ottimo ricostituente per l’insufficienza delle istituzioni nel trattare il fenomeno dell’accoglienza dei migranti.
Sui rom il discorso è altro ancora. Lì c’è di mezzo il “purtroppo” in presenza di una “italianità” evidente, incontestabile.
Sono 180.000 circa i rom che vivono in Italia: di questi la metà sono cittadini italiani, con carta di identità alla mano. Ma se fossero anche tutti “non-italiani”, che si prefigge di fare il governo? Di cacciarli? Di respingerli perché i campi dove vivono sono brutti, sporchi e chi vi abita è pregiudizialmente considerato cattivo?
Sono secoli che i rom si trascinano dietro, con i loro carri stupendamente dipinti e le loro roulette alla meglio accomodate come case nomadi, il disprezzo dei popoli del mondo perché non sono irregimentabili, sono stupendamente anarchici sul piano sociale e sono liberi, vagabondi, senza patria.
Sono stati ghettizzati, deportati e sterminati, per ultimo, da Hitler: accanto all’olocausto ebraico prese posto il porrajmos, il “grande divoramento” delle popolazioni nomadi durante l’apocalisse nazista.
Agli ebrei veniva applicata la stella di Davide gialla; agli “zingari” un triangolo nero. Sono l’unico popolo al mondo che non ha mai mosso guerra contro un altro popolo.
Sono diventati parte del mondo ma il mondo li ha sempre scacciati, allontanati. Ha preferito non accettare il nomadismo come cultura perché si contrapponeva, e tutt’ora si contrappone, alla sedentarietà delle nostre “tranquille” vite metropolitane o di provincia dove tutto scorre nella perfetta routine fatta di ingiustizie accettate come consuetudine, di soprusi padronali diventati regola del mercato del lavoro, di sfruttamento becero chiamato “modernità” contrattuale.
Ciò che spaventa è la tranquilla accettazione, da parte di presunte maggioranze rabbiose, della violenza verbale che esprime una contrapposizione antisociale che non può avere cittadinanza nella Repubblica. L’odio tra i popoli non può essere repubblica, non può trovare una sua declinazione nell’essere sinonimo di cultura, di civiltà.
Ciò che spaventa è l’utilizzo dell’abitudinarietà umana, della sua capacità di adattamento alla ripetizione di concetti e situazioni per creare una anti-cultura del disagio permanente espresso non dalla realtà ma dalla percezione, dalla falsificazione dei sensi attraverso la distorsione delle idee, creando preconcetti, pregiudizi e prevenzioni tutte frutto di una necessità di acquisizione di maggior sostegno da parte di un popolo debole.
Non quello rom e sinti. Quello italiano.
MARCO SFERINI
19 giugno 2018
foto tratta da Pixabay
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