Un sacrestano ha appena finito di distribuire ai rifugiati un po’ di pane e biscotti: la prima colazione, in un quartiere multietnico di Nizza, per decine di migranti arrivati al tempo della pandemia e ancora senza una sistemazione definitiva nella Francia macroniana, dai confini ipercontrollati e con il virus che impazza più che mai.
Poi l’uomo entra nella basilica e inizia le sue attività. Una donna prega, un’altra è ancora in strada e si avvicina al portone per fare la stessa cosa. Ma dentro a “Nostra Signora” c’è un giovane di appena ventuno anni. Viene dalla Tunisia, è sbarcato a Lampedusa e, dopo essere stato segnalato per il reato di ingresso non lecito nel territorio nazionale italiano, ex articolo 21 è stato espulso e invitato a lasciare il Bel Paese entro sette giorni.
Così si dirige verso la Francia. Passa il confine probabilmente a Ventimiglia e arriva a Nizza. Ancora una volta Nizza. Ma questa volta, al posto del camion impazzito lanciato sulla Promenade des Anglai nel pieno dei festeggiamenti serali per la presa della Bastiglia, c’è un coltello: nell’alternarsi tra chiaro e scuro, tra colonne e vetri, tra banchi e inginocchiatoi, arriva dal sacrestano, lo colpisce a morte. Urla: «Allahu Akbar». Tanto forte che lo sentono persino fuori.
Ma la donna che stava per entrare in chiesa ormai ha già passato il portone, non si accorge di quello che sta accadendo: a terra ci sono il sacrestano e la signora che era intenta a pregare. Fendenti alla gola che non lasciano scampo alcuno. Il giovane Brahim Aouissaoui si scaravaneta anche contro lei e la accoltella più e più volte.
Braccato dalla polizia, il terrorista resta rinchiuso nella basilica. La donna riesce a fuggire, si trascina lentamente per alcune vie e muore tra le braccia di un musulmano, un negoziante che ne raccoglie anche le ultime parole: «Dite ai miei famigliari che gli voglio bene».
Finisce qui, apparentemente, la cronaca nera, nerissima, di una mattina qualunque di un giorno autunnale di un’epoca di pandemia dove nessuno pensava più al terrorismo, al fanatismo religioso, alle grida verso dio per glorificarlo con altri omicidi, con altre morti, col disprezzo della vita. Gloria a dio, purché muioiano gli infedeli.
Non importa da quale parte del mondo vengono e nemmeno da quale tempo: cristiani crociati del Medioevo contro Ṣalāḥ al-Dīn, combattenti di Al Qaeda o del Daesh oggi, nonostante dio non c’entri per niente, finisce per diventare il convitato di pietra per giustificare azioni di guerra ben preordinate alla riconquista di Gerusalemme o di singole azioni che possono essere tanto il frutto di una organizzazione terroristica ramificata dal Medio Oriente all’Africa fino in Europa quanto di un giovane che ha assorbito come una spugna la propaganda fideistica e ha elaborato in piena solitudine un gesto di vendetta nel nome di dio.
Nel caso in questione è difficile poter parlare di “radicalizzazione” nel contesto chiamato “comunitario“, ossia quel fenomeno di separatismo sociale che in Francia si vive nella convivenza tra differenti etnie. Come Parigi, anche Nizza è una città cosmopolita, ancor di più se si pensa alla locazione geografica: prima grande città francese al di là delle Alpi, centro della Costa Azzurra dove si mescolano i più svariati interessi sociali, le classi più distanti: poveri e megaricchi che sconfinano nel Principato di Monaco e viceversa.
Più che altro l’attenzione di televisioni, Internet e giornali si sta concentrando sullo sbarco del ventunenne tunisino. Un ragazzo forse qualunque, come tanti altri, che non aveva dato alcun segno di insofferenza verso la società, nessuno scatto rabbioso, nulla di nulla. Una quarantena trascorsa su una nave della nostra Marina militare; un trasferimento a Bari e poi il foglio di via della Questura: abbandonare il territorio italiano in sette giorni. Siccome non ha precedenti penali, non viene inserito nella lista dei rimpatri diretti: Tunisi preferisce far rientrare meno profughi possibili. Chi fugge diventa una sorta di apolide: non lo vuole più nessuno. Ed anche questo è un dramma nel dramma.
Nel cammino verso la Francia, Brahim Aouissaoui non ha messo in pratica alcun gesto folle. Il che non vuol dire che non avesse già in mente di farlo. La premeditazione la stabiliranno i magistrati francesi. Qualcuno azzarda che siano state le vignette di “Charlie Hebdo“ ad armare la mano di questo ragazzo: ormai il settimanale satirico d’oltralpe ha tutte le colpe, anche quella dell’inquinamento dell’atmosfera e dei mari…
Non è da escludere nemmeno che questo attentatore soffra di qualche patologia mentale, non per alleggerire la sua colpa, ma perché è da mettere in conto che certe pulsioni criminali, soprattutto certe idee che le ispirano, fanno presa sulle menti più deboli, meno avezze a difendersi con l’arma civile e innocua del dubbio, della messa in discussione critica di ciò che ci viene detto e che non deve essere per forza accettato, servito e riverito come un dogma indiscutibile.
Le pacifiche rivolte della razionalità, compiute mediante le pagine di un giornale, contro l’oscurantismo religioso che è sedimento di tanti pregiudizi, preconcetti e discriminazioni, non possono indietreggiare davanti agli improvvisati legulei di cause civili che vorrebbero difendere la democrazia dagli attacchi del terrorismo impedendo la libertà di parola, di satira.
Il limite alla parola non può essere la parola stessa, ma l’insinuazione, la calunnia, l’insulto: laddove per insulto si deve intendere non lo scambio illecito tra censura della satira in base al costume di questo o quel paese, ma vera e propria offesa personale. La cristalizzazione individuale di un tema di ampia portata culturale e sociale è un problema che prescinde dal ruolo della satira o della critica giornalistica.
La libertà di pensiero e di vignetta non può essere fermata sulla soglia del moralismo: dovrebbe essere invece incoraggiata a perseguire una immoralità non banale, decentemente pensabile e replicabile nella costruzione di dibattiti, di interazioni tra differenti culture. Per quanto irriverenti possano essere, le vignette di “Charlie Hebdo” non possono essere un alibi per sgozzare le persone. Di chiunque si tratti, di chiunque si parli.
Ad articolo irriverente si risponde con articolo altrettanto irriverente. A vignetta indecente si risponde con altrettanta indecenza. Magari tutto questo rientrasse nell’oscenità, nello stare proprio “fuori dalla scena“: vorrebbe dire che ci troveremmo in una bella società dove si parlerebbe anche animatamente senza occupare troppo lo spazio di importanza che detiene la pubblica opione, la cosiddetta morale comune che, poi, niente altro è se non quello che le classi dominanti vogliono che si pensi e si faccia nel corso della nostre vite.
Le matite di un vignettista non uccidono nessuno, perché vale sempre più la penna della spada. Sempre. E’ un’arma sagace, non perdona e tocca come uno stiletto ma non ferisce materialmente nessuno. Se fa vibrare le corde morali di qualcuno, stimola la fantasia, fa ridere o arrabbiare, ha già assolto il suo compito.
Un coltello che ammazza un sacrestano e due donne, nelle prime ore di una mattina d’autunno a Nizza, non è un’arma. E’ la propria fine di essere umano. Lì, proprio sulla punta, lì dove la lama inizia e dove per Brahim non finirà mai più.
MARCO SFERINI
30 ottobre 2020
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