Pubblico o privato? No, comune

Dopo il crollo del Morandi. Invece della diatriba pubblico-privato, la tragedia del ponte Morandi dovrebbe spingere a chiedersi se siano meglio tante nuove Grandi opere inutili e costose, oppure una manutenzione seria delle infrastrutture, degli impianti e dei servizi esistenti

Il crollo del ponte Morandi ha resuscitato l’eterno dibattito se sia meglio il pubblico o il privato. Ma sul punto c’è ormai un ampio materiale probatorio: quasi tutti i settori produttivi e infrastrutturali del paese hanno sperimentato entrambi i regimi.

Il confronto è impietoso. Una volta privatizzati e fatti spezzatino, settori come l’elettronica e l’elettromeccanica sono quasi scomparsi dall’Italia.

Altri, ridimensionati come la siderurgia, sono a rischio; per tenere in piedi l’Ilva dopo vent’anni di malgoverno bisogna passare come un rullo compressore su vite e salute di decine di migliaia di persone; l’alimentare pubblico è stato tolto di mezzo. Privatizzare Alitalia è stata una truffa per far rieleggere Berlusconi; con autostrade e Telecom, dopo una girandola di “capitani d’industria” improvvisati, D’Alema aveva fatto di Palazzo Chigi «l’unica banca di affari dove non si parla inglese»; privatizzati, i collegamenti marittimi con le isole ne hanno moltiplicato l’isolamento.

Delle banche, una volta tutte pubbliche e ora tutte private, il campione è senz’altro Mps; altre sei sono fallite per aver finanziato speculazioni e progetti strampalati di soci e amici e le due banche maggiori sono in gran parte impegnate a speculazioni edilizie che hanno devastato città e campagne, lasciando edifici vuoti e impianti inutilizzati in una girandola che rischia di affondare tutti. Il settore elettrico, il solo costruito da privati, aveva dovuto essere nazionalizzato proprio per accompagnare uno sviluppo guidato dall’industria di Stato che altrimenti rischiava di soffocare.

Mostri come Tav Torino-Lione, terzo valico, Mose, Tap, Brebemi e pedemontane varie, sorti per «impulso» dei privati, sono stati portati avanti con soldi pubblici, a volte spacciati per finanza di progetto.

Se per i privati le privatizzazioni sono state una pacchia a spese dello Stato, non altrettanto si può dire per i lavoratori: il loro numero è stato ridotto; condizioni e salari fortemente peggiorati; in aziende come l’Ilva, trasformata in Lager, la famiglia Riva aveva addirittura creato una struttura di comando parallela a quella ufficiale, fatta di aguzzini posti direttamente ai suoi ordini…

Ma nessun economista ha finora studiato il nesso tra privatizzazioni e calo della produttività, o esplosione di quel debito pubblico che la grande svendita avrebbe dovuto abbattere, ma che ha solo accresciuto.

Ma l’impresa pubblica era minata da clientelismo, sottogoverno e intrusione dei partiti, perdendo lo slancio che ne aveva fatto la protagonista del «miracolo economico». Vero. Ma a gestire quelle privatizzazioni è stato lo stesso ceto politico che le stava mandando in rovina, né poteva essere altrimenti; sostituendo alle vecchie clientele nuovi imprenditori di comodo che gli garantivano gli stessi vantaggi; più l’onere degli extraprofitti e procurandosi appoggi e prebende senza doversi più occupare della gestione di apparati giganteschi e complicati per dedicare tutto il tempo a intrallazzi, chicchere e comparsate Tv.

Oggi il ritorno a una gestione pubblica cambierebbe poco; il contesto è mutato: a governare è la finanza internazionale e un’impresa pubblica di diritto privato (una SpA) non può avere obiettivi diversi da una privata: profitti e rendite.

C’è un’alternativa? Sì, evitare il falso dilemma pubblico-privato. Servizi, infrastrutture e produzioni di base sono beni comuni, ma solo se con controllo e gestione condivisi da parte della collettività. Sembra un’utopia solo perché a furia di non essere ascoltati si è perso il desiderio di partecipare alla vita pubblica.

La strada per ricostituire quell’interesse è la trasparenza e la pubblicità totale di bilanci, piani finanziari, contratti, tecnologie, remunerazioni: cose difficili, ma in ogni comitato popolare ci sono esperti per leggere e capire quei documenti e spiegarli agli altri.

Così si tornerebbe a interessarsi alla cosa pubblica e a pretendere di essere ascoltati. E’ la democrazia partecipata che non è democrazia diretta né telematica, né è alternativa a quella rappresentativa. Ammette la delega, purché su mandato e revocabile; e non chiede a tutti di occuparsi di tutto. Delle cose che non segui direttamente si occupa qualche altro comitato, finché non si arriva ai nodi che interessano tutti.

Invece della diatriba pubblico-privato, la tragedia del ponte Morandi dovrebbe spingere a chiedersi se siano meglio tante nuove Grandi opere inutili e costose, oppure una manutenzione seria delle infrastrutture, degli impianti e dei servizi esistenti.

GUIDO VIALE

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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Politica e società

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