Siamo tornati lì, a quella promessa di una riforma elettorale «quanto più possibile condivisa» che garantisca «pluralismo e rappresentanza». Nell’intervento con il quale presentò alla camera il governo giallorosso, il 9 settembre 2019, Giuseppe Conte fece la promessa in cambio del voto favorevole di Pd e Leu al taglio dei parlamentari.
Nel discorso preparato per mantenere in piedi il suo governo, il messaggio di Conte è rivolto ancora alle forze fedeli della sua maggioranza, che quella riforma elettorale non si sono stancate di aspettare. Magari parla anche a possibili nuove formazioni centriste di volenterosi, che però prima di tutto avrebbero bisogno di trovare una sponda in una futuribile lista del premier.
Ora quella sponda Conte non può darla – Tabacci gli ha chiesta esplicitamente – perché rischierebbe di far esplodere i 5 Stelle. E così resta la promessa. Più esplicita, perché stavolta il capo del governo ha pronunciato la parola «proporzionale». Ma anche meno allettante per una piccola lista che volesse debuttare, perché Conte ha dovuto aggiungere «l’esigenza ineludibile di assicurare una complessiva stabilità al sistema politico». Che significa: soglia di sbarramento. Se non al 5%, com’è prevista oggi nella bozza Brescia ferma da quasi un anno, non più giù del 4%, assicurano dal Pd che più sotto non intende andare.
È molto difficile, però, che dalla promessa si possa passare ai fatti. Le condizioni per portare avanti il disegno di legge Brescia non sono migliorate dopo la rottura con Renzi. In prima commissione era Italia viva a tenere ferma la legge elettorale, adesso i numeri si sposteranno ulteriormente e i giallorossi perderanno la maggioranza. Condizione comune a quella di diverse altre commissioni, sia alla camera che al senato.
Lo stallo si determinerà anche nella commissione giustizia di Montecitorio, dove in teoria dovrebbe ripartire quel progetto di riforma del processo penale che è stato inserito anche nel Recovery plan (e c’è il nodo prescrizione). Iv detiene la presidenza di due commissioni alla camera (finanze e trasporti) e di due commissioni al senato (sanità e cultura, quest’ultima con l’indeciso Nencini) e verosimilmente le manterrà fino alla fine della legislatura. Pericolosa la situazione nelle due giunte per le autorizzazioni, dove l’opposizione sarà in ampia maggioranza.
Ovunque i giallorossi si troveranno in una condizione di difficoltà nel (sempre più raro) lavoro ordinario, destinata a durare fino a quando, eventualmente, dovessero formarsi due nuovi gruppi in grado di riequilibrare i numeri nelle commissioni.
È il prezzo da pagare a questa soluzione veloce della semi-crisi. Senza le dimissioni del presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica è rimasto a bordo campo in attesa del voto di fiducia in parlamento. Voto per il quale basta la maggioranza semplice, anche se poi governare non sarà agevole.
Giorgia Meloni ieri ha messo tra parentesi questo aspetto, quando dall’aula ha sostanzialmente chiesto a Mattarella di non consentire il Conte 2, sulla base del fatto che l’avvocato non avrebbe avuto la maggioranza assoluta – che invece alla camera ha incassato. Quel tipo di condizione il presidente della Repubblica l’ha posta, in passato – e non è stato il solo, come ricorda Bersani – ma solo nel momento di formazione di un nuovo governo. Mentre in questi giorni la crisi non si è nemmeno formalmente aperta.
O meglio, pareva di no visto che Conte non si è dimesso. E invece ieri nel suo intervento il presidente del Consiglio ha disinvoltamente parlato più volte di «crisi aperta».
Proprio lui che ha deciso di congelarla e passare oltre. Passare, ha promesso ancora, addirittura a fare le riforme costituzionali annunciate ma non fatte in questo anno e mezzo. Si tratta del voto ai 18enni per il senato, messo tra parentesi all’ultimo momento da ormai tre mesi. Della la riforma del Titolo V che da sola impiegherebbe una legislatura. E, novità, di qualcosa che ricorda tanto il voto a data certa già previsto dalla riforma Renzi e bocciato nel referendum del 2016.
ANDREA FABOZZI
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