Duecento euro fanno comodo a quella parte di popolazione, di mondo precario, disagiato e sulla soglia della povertà insistente piuttosto che ai grandi ricchi o anche soltanto ai benestanti. Essere realmente tali, oggi, vuol dire godere di più di un privilegio: significa avere accesso a tutta una serie di servizi che lo Stato dovrebbe garantire a tutti e che, con le privatizzazioni messe in campo dal cinquantennio liberista che ci avviluppa dagli anni ’70 fino ad ora, diventano sempre meno godibili da larghe fasce di cittadini.
Tuttavia, appunto, duecento euro non si rifiutano affatto, in particolare se vengono elargite dal governo a chi annualmente sta sotto la soglia dei 30/35 mila euro di reddito. Meglio ancora se si è pienamente consapevoli che questa non è una politica di progressività economica (magari anche fiscale) da parte dell’esecutivo di Mario Draghi. Nessuno la invochi come spauracchio, perché proprio non è nemmeno nel più pallido dei pallidi orizzonti della politica italiana: la patrimoniale. Un po’ come la proporzionale per quanto concerne la legislazione elettorale.
Servono ogni qual volta c’è da agitare lo spettro di un maggiore equilibrio sociale e democratico che non s’ha da fare. E poi si rientra nei ranghi del protezionismo dell’instabilità economica, tutta sempre sulle spalle della povera gente, e di quella più strettamente istituzionale e politica, tutta sempre sulle spalle delle piccole e piccolissime formazioni partitiche e di movimento che non hanno voce in capitolo e cui al massimo si pensa di assegnare munificamente un “diritto di tribuna“.
Le misure annunciate da Draghi, Franco e Cingolani per fare fronte all’ondata di crisi quasi post-pandemica, ma intrinsecamente bellica, sono molto più che insufficienti per ribaltare il quadro economico-antisociale assolutamente desolante. Non bastano poche centinaia di euro per mettere al sicuro l’impotenza (altro che potere…) di acquisto di salari che sono gli ultimi per consistenza nell’Europa dai democratici valori occidentali.
Non bastano nemmeno i fievolissimi aumenti di prelievo fiscale per quella parte di mondo imprenditoriale che si è arricchita a dismisura proprio nel biennio pandemico e che ha fatto affari grazie ad una serie di tutele statali che sarebbero invece dovute andare, prima di ogni altro settore, al mondo del lavoro, al nerbo produttivo del Paese.
A Draghi sta, seppure lentamente, sfuggendo di mano la maggioranza di “unità nazionale” e non tanto sui temi dirimenti che riguardano la guerra, l’invio delle armi e il sostegno senza condizioni alla visione nord-atlantica del conflitto in corso: motivi di frizione tra le forze politiche ve ne sono, e non trascurabili, ma più critici sono quei temi che scavano un solco tra la Presidenza del Consiglio e, ad esempio, i Cinquestelle e che riguardano temi incalzanti sulle questioni della “transizione ecologica“, degli sgravi fiscali, di una concretizzazione di politiche dai tratti sociali.
Il richiamo di Conte a Letta sul compattamento del cosiddetto fronte o “campo progressista” è, almeno un questi frangenti, non tanto la ricerca di una piattaforma programmatica in vista delle elezioni amministrative di giugno (e pure dei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai Radicali), quanto uno spostamento della maggioranza di governo sulla conduzione in porto di riforme strutturali che si separino dalla linea assolutamente liberista draghiana.
La vera discussione in atto nel governo è proprio su questo: l’ultimo anno di Draghi a Palazzo Chigi (ammesso che lo sia…) sarà orientato ad una mitigazione dell’impatto euro-liberista sull’economia italiana o sarà improntato invece ad una sempre maggiore adesione alle linee guida di Bruxelles e dei dettami del PNRR con la formulazione di leggi attuative che diminuiranno ulteriormente i diritti sociali e i margini di gestione della crisi per milioni e milioni di italiani impoveriti dalla pandemia prima e dalla guerra poi?
Precisiamo: i Cinquestelle e il PD non sono un “campo progressista” come vorrebbero far credere al loro elettorato e anche a quello che vorrebbero riconquistare. Sono due forze politiche che hanno dato prova della loro fedeltà al liberismo da tempo: i democratici ben prima dei pentastellati, ma soltanto per via di una questione logicamente cronologica.
Hanno recuperato nel corso degli anni, negli avvicendamenti al governo, nel mostrarsi in tutta la loro ambigua trasversalità: prima illudendo milioni di persone sulle potenzialità rivoluzionarie di un movimento che limitava la sua critica alla sovrastrutturalità e lasciava intatto il dogma del mercato come s-regolatore delle vite di tutti; poi mettendo in pratica tutto ciò con la camaleontica attitudine trasformista nel passare dal patto di governo con la Lega di Salvini a quello con Renzi, PD e LeU.
L’approdo nella maggioranza draghiana, proprio per questo, ha sorpreso fino ad un certo punto: M5S, Lega e PD si ritrovavano con Renzi e LeU e altre forze come Azione, +Europa e PSI, tutte di chiara matrice liberista, in una “unità nazionale” a salvaguardia dei privilegi imprenditoriali da un lato, a parziale tutela del mondo del lavoro dall’altro. Nessuno di loro ha mai pensato di rappresentare una contraddizione in seno al draghismo.
La saldatura di queste due anime della maggioranza è quello che il Presidente del Consiglio voleva per dichiarare al Paese, con il semplicismo banalizzante utilizzato da tanta parte della stampa e dei media in generale, che la pace sociale era necessaria per affrontare il momento di crisi della coda pandemica e ora quello dell’irrompere della guerra sullo scenario europeo e internazionale.
Mentre le forze del centro-destra e del centro della maggioranza governativa rappresentano a pieno titolo l’impianto conservatore di un industrialismo e di una finanziarizzazione dei mercati che mira a ridurre le tutele sociali per fare posto a sempre maggiori ottenimenti di profitti, Cinquestelle e PD proprio non possono ascriversi la rappresentanza del progressismo italiano, a meno di non identificare questo con correnti e pratiche degli ultimi decenni che hanno fatto venire meno le istanze anche timidamente socialdemocratico-popolari che avevano ispirato la svolta veltroniana.
La consunzione del progressismo coincide, è evidente, con la frammentazione e la diaspora delle sinistra tanto moderata quanto rivoluzionaria, comunista, radicale, di alternativa che dir si voglia. Sia il movimento guidato da Conte sia il partito rappresentato da Letta sono inconciliabili con la sinistra perché fanno prevalere sulla visione e la pratica sociale una visione e una pratica che mette come fulcro dell’azione di governo nazionale e locale il punto di vista dell’impresa al posto di quello del lavoro.
Le proposte ecologiste, per il salario minimo garantito, che pure sono importanti nella desertificazione avanzata contro lo stato-sociale un tempo esistente, finiscono con l’essere sommerse dalle controproposte di Draghi e dell’asse politico della maggioranza che abbiamo chiamato “conservatore“.
La prevalenza di quest’ultimo è data non solo dai rapporti di forza interni al governo, sommando questa tendenza ai numeri dalla presunta opposizione di Fratelli d’Italia, ma anzitutto dall’inflessibilità di Draghi, dal suo rappresentare, pur indebolito sul piano carismatico dal logorio degli eventi e dal confronto con la crudezza della crisi economica, il solo, vero, unico collante per il governo stesso.
Dopo la caduta del Conte II, non si è cercata una maggioranza da cui venisse fuori una proposta politica che indicasse un nuovo Presidente del Consiglio. Si è agito esattamente nel senso opposto: si è partito dal nome e si è cercato di agganciargli il maggior numero di forze politiche, così da imbalsamare la democrazia parlamentare, fare delle Camere una depandace del governo che ha agito in “stato di emergenza” pandemica fino a pochi mesi fa e che ora può fare ciò che più ritiene opportuno in materia di spedizioni di armi e finanziamento della guerra in Ucraina, richiamandosi alla crisi internazionale, all’eccezionalità dei tempi.
Tempi che sono eccezionali, che sono gravati da più stati di crisi che si sommano e che non fanno altro se non impoverire ulteriormente i già poveri, i meno tutelati, i più indigenti.
Se esiste una lotta interna al governo tra via progressista e via conservatrice, Draghi la osserva dall’alto di una posizione di forza, di predominanza che non tenta neppure una equidistanza tra le parti, ma sfruttandone le contraddizioni per dare alle misure prese dall’esecutivo ora una fisionomia sociale e ora una di attenta preservazione dei privilegi padronali e dell’alta finanza.
In questa oscillazione di rappresentanze distanti dal sentire comune, dai bisogni reali degli strati sociali più deboli della popolazione, rischia davvero molto la tenuta democratica delle istituzioni e, pertanto, la rappresentanza del volere dei cittadini in seno alle Camere e ad ogni livello di gestione della cosa pubblica. La prevalenza viene data ad una riqualificazione della produzione della ricchezza che non può prescindere da vincoli di bilancio, da patti sottoscritti e da un perimetro della politica draghiana che non consente di trascendere oltre i desiderata europei: dall’economia classicamente intesa a quella molto più invasiva che riguarda la guerra.
I duecento euro citati all’inizio, le proposte sul rilancio dell’incenerimento dei rifiuti piuttosto che la strada anche pentastellata della “transizione ecologica“, la mancanza di una riforma del fisco in senso progressivo e l’orizzonte di una legislazione elettorale tutto tranne che proporzionale, non aiutano a sperare nella difesa della democrazia proprio da parte delle istituzioni stesse. I più allarmanti pericoli per la tenuta del nostro patto costituzionale vengono, come sempre nella storia repubblicana d’Italia, dal nostro interno. Non da nemici esterni.
Sono i nostri amici d’oltreoceano, la nostra adesione totale ai dettami di Stoltenberg e Biden, a rappresentare oggi una pericolosa attitudine simbiotica tra politica interna e politica estera che sacrifichi tutti i bisogni sociali sull’altare della veloce espansione della crisi bellica, di quella ambientale e della coda pandemica che ci trasciniamo appresso.
Troppe incognite pesano sul mondo del lavoro, della precarietà e dell’inoccupazione di lungo periodo. Troppo disagio cresce nel Paese e non c’è nel governo alcun punto di riferimento per milioni e milioni di persone che sono già pericolosamente oltre la soglia della povertà. Quella certificata impietosamente dall’ISTAT. Per tutta l’altra, per il mondo invisibile della disperazione sociale non c’è alcuna risposta. Tanto meno quella dei duecento euro: una elemosina di Stato, un aiuto che non risolve nemmeno in parte i grandi problemi quotidiani di tanti milioni di italiani…
MARCO SFERINI
5 maggio 2022
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